La progettazione (ana)grafica del packaging.

Immagine 2Coca Cola e Nutella:

il prodotto sei tu?

Una ha aperto le danze,  subito dopo si è buttata in pista anche l’altra. Tra le corsie dei supermercati si è aperta la caccia alle lattine e alle bottiglie di Coca Cola  marchiate con i nomi propri di persona; nei locali di ristorazione pure. La pagina Facebook di Nutella accoglie i fan con un’applicazione che consente di richiedere e ricevere l’etichetta con il proprio nome; una volta customizzato il barattolo, chi vuole può immortalarlo, pubblicare la foto in rete e partecipare a un concorso a premi. Superfluo osservare che quanto più un’iniziativa punta all’individuale, tanto più viene comunicata attraverso i canali social, perenne qui e ora digitale.

La cosa sta funzionando, perché tutti tendono ad autorappresentarsi come individui con gusti precisi e dalla personalità distinta, nessuno vuole sentirsi parte di una mandria da portare al pascolo sui prati sintetici di un segmento di mercato. Insomma, se sul packaging del prodotto trovi il tuo nome, significa che il produttore ha pensato proprio a te; o quantomeno ti illudi che lo abbia fatto.

I consumatori apparentemente più colti e consapevoli – il vissuto nannimorettista di Nutella mi porta a pensare che i suoi addicted siano prevalentemente di questo tipo – si sentiranno forse un po’ meno uomini a una dimensione, quella del consumo e del consenso, e potranno abbandonarsi ai demoni della persuasione, riponendo temporaneamente il pensiero di Marcuse nella libreria del salotto.

I consumatori senza pretese antisistema saranno probabilmente ancora più attratti dall’icona pop colorata col caramello. Presumibilmente estranei ai cerebralismi, potranno manifestare con un gioioso crepitio di emissioni orali al CO2 la loro approvazione; della Coca Cola sono sempre stati amici, ora che in ragione del nome condiviso il rapporto si è fatto ancora più stretto, le inibizioni se ne andranno in un soffio (acido).

Il passaggio dalla progettazione grafica del packaging alla progettazione anagrafica dello stesso si è dunque compiuto. Idea facile? Facile dirlo dopo. Avrebbe potuto averla chiunque? Non lo so: a me, per esempio, non credo sarebbe venuta in mente. Sia come sia, non stiamo trattando di massimi sistemi, ma di cose da pubblicitari, artigiani della parola e dell’immagine, gente che quando progetta una confezione un risultato decente lo porta a casa quasi sempre. Certo, a volte capita che l’esito sia un packaging di merda, indegno di essere esposto sugli scaffali dei punti vendita; ma in tal caso si può sempre ripiegare sulle teche dei musei: Piero Manzoni insegna.

Fonte immagine: condividiunacocacola.it

 

Parole a pacchi: elogio al packaging.

DSCN1775Pamphlet in difesa

del packaging che informa, racconta e coinvolge.

Sto per rivelarvi una cosa che detta altrove provocherebbe nella migliore delle ipotesi ilarità e, nella peggiore, preoccupata perplessità. In questa sede però, fra gente che ha eletto la parola a fonte di sostentamento, so di poterlo fare. Lo confesso: leggo i testi delle confezioni del dentifricio; non solo, anche quelli del packaging dei cracker. Lo faccio soprattutto per premiare chi li ha scritti, persone che meritano rispetto perché nel farlo si sono impegnate. Mi è capitato di rado di lavorare a cose di questo tipo; se sapessi che qualcuno si è preso la briga di buttare l’occhio sul corpo minuscolo di quei caratteri ne sarei gratificato.

Poesie in terzine di endecasillabi su confezioni di merendine; consigli dietetici esposti con linguaggio da luminari della medicina su involucri di fette biscottate light; ricette da chef stellato – definizione irritante – su scatole di riso; storie di alchimisti degne di Marguerite Yourcenar su flaconi di prodotti di erboristeria. Parole che compiono uno sforzo eroico per cercare di farsi leggere e fare la differenza, con buona pace dei più cinici; testi dietro i quali c’è del lavoro, del buon lavoro.

Sono un sostenitore delle confezioni comunicative, non mi faccio blandire da quelle scaltramente minimaliste; propendo per contenitori che valorizzino l’atto del consumare. Non mi riferisco solo a cibo e bevande, ma anche ad altre categorie di prodotti, comprese quelle che per consuetudine limitano le informazioni riportate sul packaging alle norme d’impiego.

Auspico l’adozione di un approccio di questo tipo anche per determinati farmaci. Gli antidepressivi per esempio meriterebbero confezioni studiate per coinvolgere emotivamente chi li assume. Perché i biscotti sì e la Paroxetina no?  Da una casa farmaceutica evoluta mi attenderei scatole con grafiche pop art e blister cromati contenenti compresse con emoticon sorridenti; meglio se accompagnate da nomi che invece di ispirarsi a molecole e principi attivi attingessero a un immaginario rasserenante; ancora meglio se condite con storielle a lieto fine e citazioni da Candido, o l’ottimismo di Voltaire nel bugiardino.
Certo, l’autorevolezza scientifica esige da questo tipo di medicinali codici verbali e visivi ormai divenuti archetipi, ma scardinarli, operazione audace, potrebbe rivelarsi producente.

Avendo frequentato, sia pur per breve tempo e in quantità risibile, la farmacopea del benessere indotto, credo di poter dare almeno un suggerimento. Tra le parole che meglio si presterebbero a fare da contrappunto lirico alla scientifica freddezza delle indicazioni terapeutiche c’è il ritornello di una canzone che ha come titolo un ossimoro, scritta da un mio carissimo amico, leader della band Prozac+. È un invito a cogliere la luce in fondo al tunnel, che vedrei bene, magari stampato in Lobster, sul packaging di una qualsiasi pillola della felicità:

io sono gioia nera / non pensare più a me / non pensare più a me
io sono gioia nera / non pensare più a me / non pensare più a me

 

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