London Tales #1

Benvenuti in London Tales, la mia nuova rubrica che ho promesso mesi fa a Daniela e che finalmente trovo il tempo di scrivere.

 

Oggi inizia la primavera e ieri la mia esperienza londinese ha varcato la ragguardevole soglia dei 2 mesi.
In sostanza sono a 1/3 del percorso medio di una delle innumerevoli persone che vengono qui per fare “un’esperienza di vita” o “per imparare la lingua” (questi ultimi sono i peggiori; mentono sapendo che, nella migliore delle ipotesi, torneranno in Italia con notevoli miglioramenti del loro spagnolo sboccato).

Brevissimo riepilogo: dopo l’estate io e Andrea, il mio Art Director, abbiamo iniziato a guardarci intorno, desiderosi di un’esperienza diversa nel mondo che amiamo. Dapprima in maniera pigra e sognante, ma poi, gira che ti rigira, abbiamo iniziato a fare sul serio e una delle domande che abbiamo inviato è stata presa in considerazione da quelli che oggi sono i nostri attuali datori di lavoro. Un colloquio su Skype con il nostro direttore creativo, giusto il tempo di piacerci e in men che non si dica eravamo a fare la fila per il National Insurance Number (per i meno avvezzi: la previdenza sociale di Sua Maestà, l’unica rottura di balle della burocrazia inglese).

Come potrete facilmente immaginare, per un copy è quanto meno ardito, se non completamente idiota, lanciarsi a capofitto in un’avventura estera se il proprio stipendio è stato pagato fino all’altro ieri dalla lingua italiana, a maggior ragione se si considera che la nuova lingua da padroneggiare non la si è studiata neanche un giorno in vita propria (mi rendo conto dell’inutilità di quest’ultima informazione, ma la scrivo per fare un dispetto ad Andrea, che si lamenta, giustamente, del fatto che con questa storia sono un disco rotto, ormai).

Eppure posso dire con ragionevole certezza che ha ragione lui:

https://www.youtube.com/watch?v=10KObAQFmlY

Sì, fare il copywriter in un’altra lingua sembra possibile. In fin dei conti la lingua si impara e il talento che uno può avere con le parole è, a dispetto delle apparenze, senza confini.

Fatality

Le insidie sono tantissime, a cominciare dalla tastiera (punteggiatura disseminata a casaccio e la combinazione di tasti per una fatality in Mortal Kombat è più semplice di quella necessaria per accentare le lettere), passando per cultura e senso dell’umorismo. Insomma, sono e saranno mesi di adattamento davvero intensi e difficili, ma non impossibili.

Ovviamente, ancor prima di perfezionare la lingua, mi sto già buttando a capofitto nei giochi di parole. Nello specifico, il mio più grande successo finora è aver coniato il termine “fuckount” per indicare i nostri acerrimi nemici in agenzia.

A tal proposito, entriamo un po’ più da vicino nella vita lavorativa d’oltremanica.

Ecco, cominciamo subito dalla tecnologia. Siamo in un’agenzia digital, per cui qui viene data molta attenzione alle ultime novità in materia. L’altro giorno giocavo felice e beato con l’Oculus Rift (ho avuto più o meno la stessa reazione del protagonista del video) mentre ieri perdevo la testa per il Leap Motion Controller. In generale, comunque, qui si dà molta importanza a ciò che succede nel mondo, sia a livello pubblicitario sia a livello di tecnologia tout court.

Passiamo alle note dolenti.
I nostri cari fuckount non si discostano minimamente dai loro italici corrispettivi (mi riferisco alla media generale, non alla mia ultima esperienza a Milano, che considero oro rispetto a certi picchi di follia visti qui). Parecchi di loro sono campioni olimpici di domande idiote (sì, grazie a loro ho rivisto le mie posizioni rispetto al detto “non esistono domande idiote, solo risposte idiote”) e di debrief tragicamente travisati. Risultato? A furia di lavorare fino a tardi, ormai abbiamo fatto la carta fedeltà alla pizzeria qui sotto, famosa per cucinare una tra le peggiori pizze del Regno Unito, che già di per sé è un primato ragguardevole.

Kate Pizza

E i clienti sono forse anche peggio (sia dei fuckount, sia della pizza).

La frase più ricorrente è senza dubbio “there’s no budget for that”, che suona molto come “there’s no trip for cats”, sia a livello fonetico sia a livello semantico, a ben pensarci.

In cucina, come potrete immaginare, le cose non vanno meglio. Qui al ristorante dell’agenzia hanno una concezione quanto meno fantasiosa di “insalata” (diciamo che puoi considerarla tale dopo che hai trascorso mezza giornata con Salvador Dalì, Boston George e Paul Gascoigne), ma gli inglesi sono cintura nera di junk food. Una cintura molto allargata, mi viene da dire.

Il top comunque è un ragazzo, che per privacy, praticità e scarsa memoria chiamerò Salvatore, che lavora alla caffetteria. È inequivocabilmente napoletano e, in barba a ogni luogo comune, un istante dopo aver conosciuto me e Andrea ci ha subito proposto del tabacco di contrabbando a £2. Una gioia incontenibile e inspiegabile ha pervaso il mio corpo in quel momento. Sono scene che contribuiscono parecchio alla formazione di una persona e che farebbero la gioia di Zola e Flaubert (cito due francesi a caso giusto per fare rabbia agli inglesi).

 

Ma sapete che c’è? It is worth it. E tanto anche.

Al di là di tutte le lotte (col cliente, ma anche interne, come ogni grande agenzia), quello che vedo qui è un mondo abitato da persone ancora innamorate del lavoro che fanno. Forse la differenza sta nel fatto che a Londra, paradossalmente, c’è molta meno concorrenza rispetto all’Italia, dato che manca quella generale “mitizzazione” (ci ho messo cinque minuti per trovare le virgolette, maledetta tastiera Uk) della professione che in Italia ancora abbiamo, e chi lavora in pubblicità lo fa per vera passione e dedizione, non perché “fa figo” (credetemi, qui non fa per niente figo essere un copy).

O forse sto dicendo solo un mucchio di baggianate, chissà. Sarà il tempo a stabilirlo.

Resta il fatto che qui si sta bene, oggi c’è il sole e, come ogni venerdì, tra poche ore partiranno le birre gratis, ma l’altra sera, parlando su Skype con mia sorella, le ho chiesto di inquadrare il bidet e mi sono quasi commosso.

Sono cose che fanno pensare.

 

Ps: ci è appena arrivata un’email che millanta un pranzo a base di pizza per tutti. Ho paura.

 

NB:
per una corretta lettura e fruizione dell’articolo si consiglia l’ascolto di “For Emma, Forever Ago” (quanti più brani, possibilmente) dei Bon Iver.

 

 

Copyando copyando, dalla lattina al barattolo.

Questo articolo si basa su un dialogo realmente avvenuto tra due copy.

Copy 1: Visto il nuovo spot di Nutella?

Copy 2: Sì, bellissimo film… peccato il finale. L’apparizione del barattolo alla fine non la digerisco.

Copy 1: Immagino che il cliente fosse a conoscenza dell’operazione coca cola…

Copy 2: Eh sì, una scopiazzatura in piena regola. L’avessero fatto prima, con uno spot così bello… Eppure quel barattolo alla fine proprio mi disturba.

Copy 1: Possibile che il ragionamento sia stato “Se ha funzionato per Coca Cola, funzionerà anche per Nutella.”

Copy 2: Sì, ma in definitiva vuoi dargli torto? Gli addetti ai lavori criticheranno l’operazione dicendo che hanno copiato, ma chi si compra la nutella se ne frega. Anzi, avrà finalmente non solo la coca cola, ma anche la nutella col suo nome! Vuoi mettere la soddisfazione?

http://www.youtube.com/watch?v=iJoYvAhVPEM&feature=youtu.be

 

 

Il conta-copy.

copy-contabileCercasi CC, Apprendista CC. Con esperienza, naturalmente.

Potrebbe essere un conto corrente con esperienza di crescita, oppure un articolo del codice civile da tenere presente per esperienze future. E invece no, il CC sono io: il copywriter contabile, apprendista e con esperienza per giunta.

Due paradossi in così poche righe sono un risultato di tutto rispetto, davvero, e posso garantirvi che apprendere l’arte del conta-copy con tanto di busta paga che lo certifica (sotto la voce qualifica c’era scritto copywriter contabile, giuro) è davvero una bella soddisfazione.

Siamo in pochi in Italia, sapete? Scrivere a mano la contabilità è arte di altri tempi ma scriverla a parole potrebbe essere l’arte del futuro.

Facciamo un passo indietro (giusto di qualche anno). 25 anni, apprendista copywriter di una piccola agenzia locale, di quelle così piccole che tutti fanno un po’ tutto, dal rispondere al telefono a ritirare i volantini in tipografia. Mansioni aggiunte non pagate, ovviamente, che creano quella dannata esperienza che tutti cercano nei giovani apprendisti.  E quindi si fa. Fa parte del gioco e del contributo che dai per far crescere un’azienda che un giorno decollerà. E dato che per natura sei predisposta (questo è da vedere) fai le fatture e la prima nota che una mano lava l’altra e tutti dobbiamo fare qualcosa in più. E vabbene.

Capirete che in un’azienda già predisposta al volo, la cosa che certamente non deve mancare per il decollo è un contabile interno. E dato che c’è un copy che le fatture già le fa, direi che l’unica (e dico l’unica) soluzione è quella di trasformarla in un CC, un meraviglioso copywriter contabile che metterà gli occhiali per registrare le fatture senza sdoppiare la partita doppia e indosserà la parrucca rossa per creare un claim di successo per il migliore cliente del momento. Ma la scrivania cambia? No, no. E perché? Siamo piccoli ricordi, non abbiamo posto ma abbiamo tanto da fare e un decollo da preparare. Su muoviti.

Ora, io non so se avete presente un contabile: con tutto il rispetto per la categoria (di cui tra l’altro faccio parte anche se sono un rappresentante sui generis) sono precisi, meticolosi, ballano da una scadenza all’altra senza scomporsi, restano impassibili davanti alle nuove normative ( che spuntano come funghi ogni giorno) e comunicano solo con i numeri. Il loro massimo risultato è lo zero a chiusura di una partita doppia che è un giroconto ma non torna mai pari e le colonne sballano.

E avete presente un copy? Raramente usa i numeri e se li usa li scrive per intero.  Se sei un copy crei con le parole, giochi con i significati, hai una visione distorta della realtà e per averla devi possedere una dose così alta di astrazione che solo uno spirito creativo può avere.

Quindi un CC con esperienza che cos’è? È un gelato bigusto: soddisfa due voglie ma c’è il rischio di mischiare i sapori. Ne può derivare una contabilità creativa che non tende allo zero ma all’uno più o meno e un copywriting numerico con cifre stilistiche nuove, i piedi per terra e le banche alle calcagna.

Per onore di cronaca questo gelato professionale è durato per oltre due anni e in effetti, quando ho deciso di abbandonare l’aereo che stava ancora decollando e tra l’altro non è ancora partito, quello che ha pagato di più è stato il mio lato contabile che mi ha permesso di trovare subito un nuovo lavoro. Senza farfalle nello stomaco, intendiamoci, ma con qualcosa da mangiare sotto i denti. Sono ancora in bilico però. Occhiali blu o parrucca rossa? Il rosso mi piace di più e con il blu faccio qualche scarabocchio per lavoro.

L’abilità del trasformismo professionale però, l’ho inserita nel curriculum nella sezione  “Altre capacità e competenze”.

 

Il senso del copy per Instagram.

copywriter instagram

In principio era il verbo 
poi fu Instagram
e l’annosa questione, 
pari al dubbio dell’uovo e della gallina,
sulla supremazia dell’immagine rispetto alle parole
non ebbe più tribunale.

Le foto hanno vinto.

Certo, puoi condirle con testini striminziti e font di fortuna,
puoi abbellire ombrelloni a quadri,
porzioni di cielo e gonne plissé 
ma devi arrenderti.
 
Si fa prima a fotografar vittoria
che a scriver nike sulla sabbia.
 
Eppure, antitesi e rimedio,
quel quadrato angusto ospita sempre più
visioni da copywriter.
Uomini e donne che hanno votato tutti gli emisferi possibili
all’uso creativo e incondizionato della parola
capitolano dinnanzi all’evidenza,
immortalando scene che avrebbero narrato, forse meglio.
 
E mi torna in mente, come in un autoscatto con il flash, 
la Descriptive Cameraquell’incredibile invenzione
che tras
formava immagini in scontrini di frasi compiute.

Io ne vorrei, chiedendola a gran voce,
la sua versione app.

Inquadrare il mondo e poi vedermelo descritto
con le uniche parole che avrei deciso di usare
per dire di quell’immagine tutta lo scibile emotivo e razionale.
E poi scegliere, per eccesso di zelo, tra i filtri Salinger, Pasolini o Baricco 
al posto del Nashville, Sierra e Mayfair.
Ma se ancora non esiste forse ci sarà un motivo.
Appena lo trovo, lo immortalo.
In uno scatto. Promesso.

Quando il copy è in vacanza.

copy_vacanza

Mentre l’amante del thriller si gode il suo giallo sotto l’ombrellone, dall’altra parte della barricata se ne sta il copy. A prima vista sembra un bagnante in vacanza come tutti gli altri, al massimo con gusti letterari un po’ originali. Però se osservi bene lo riconosci. È quello che oscilla tra momenti di assoluto estraniamento e sprazzi di concentrazione da maestro zen.

È lontano anni luce dal gruppetto degli irriducibili giocatori di beach volley. È sempre munito di crema solare protezione 30 e di occhiali da sole rubati al prop di Blues Brothers – il film. Insomma, è un tipo. Poco da spiaggia, certamente.

Per uno che dice di lavorare mentre guarda assorto fuori dalla finestra, l’orizzonte aperto del mare dovrebbe apparire come un paradiso da brainstorming intergalattico e invece tutti i passatempi estivi, noti al resto dell’umanità come tali, per il copy sono una sorta di palestra.

Un giochi senza frontiere a partecipazione individuale.

Le parole crociate? Una passeggiata di salute per la flessibilità delle mappe concettuali.
I rebus? Un esercizio propedeutico alla comprensione visiva dei rough.
Unisci i puntini? Si, quello è un diversivo.
Ma enigmi e anagrammi? Quelli sono giochi da copy.
Puro allenamento per la decifrazione sintattico-stilistica dei brief dell’ultim’ora.

E poi ci si mettono anche gli annunci pubblicitari. Deodoranti, auto, orologi e prodotti di bellezza d’estate vengon fuori su magazine, settimanali e quotidiani, con cariche straordinarie di disinibizione, scongelate dopo l’ibernazione dei mesi più freddi dell’anno.
E giù con le ipotesi sostitutive di head line e payoff.

Insomma, a voler peccare di attenzione, questa roba finisce per essere un piccolo supplizio.
Basterebbe alzarsi dalla sdraio, si può pensare. Farsi semplicemente un bagno.

E invece no. Il nome dello stabilimento balneare stampato in ogni dove è la sfida per un nuovo naming. E il brand inciso in bella vista sui braccioli del bambino che ci ha appena liberato dall’impiccio di testare la temperatura dell’acqua, ha una forma che, cavolo, abbiamo già visto. E ogni bracciata è uno scandaglio nell’archivio mnemonico.

Provateci, se volete, a trovare un confine definito tra il piacere e l’ossessione quando la deformazione professionale tocca la sfera delle parole. Provateci e se ci riuscite, fatemi un fischio, che l’anno prossimo si dividono le spese.

Perché anche i compagni di vita dei copy ci stanno provando. Loro, che sono stati costretti ad abbracciare questo modus vivendi, inconsapevole o inevitabile, come si accetta di riflesso il giuramento di Ippocrate quando si sposa un medico. Perché, sempre loro, si ritrovano spesso a giocare a scarabeo, nelle fresche sere d’estate, con un mojito (un black russian o un martini on the rocks) come unico allegro supporto.

Perché i copy sono delle spugne. Spesso, nel vero senso della parola.
Ma da questo difetto qui, per fortuna, ci si può sempre disintossicare.

 

Articolista – Web writer – Copywriter a piacere

Ho appena ricevuto per email un annuncio di lavoro come me ne arrivano tanti. Per comodità del lettore in cerca di impiego ma ancora con poca esperienza, l’ho tradotto in italiano.

 

Annuncio originale

Articolista – Web writer – Copywriter

Ricerchiamo in tutta Italia un articolista per ampliamento dell’attuale organico.

Il candidato dovrà occuparsi della redazione di contenuti per il web di vario tipo e su vari argomenti, tramite telelavoro.

Si richiedono:

– Diploma di maturità o superiore
– Esperienze lavorative pregresse nel settore (facoltativo)
– Ottima conoscenza della lingua italiana e buona conoscenza della lingua inglese
– Ottime capacità di trattare argomenti di vario genere
– Ottime capacità organizzative e di lavoro in team
– Conoscenza nell’uso delle e-mail, di Skype, di WordPress e in ambito SEO (facoltative)

Si offrono:

– Lavoro tramite telelavoro
– Ambiente di lavoro stimolante ed in continua crescita
– Formazione nel settore a 360′
– Flessibilità degli orari
– Retribuzione per articolo dai 0,50 centesimi ai 5 euro o più, con possibilità di realizzare quanti articoli si vuole.

I candidati sono invitati ad inviare una breve presentazione e ad allegare un curriculum vitae aggiornato.

Traduzione in italiano:

Articolista – Web writer – Copywriter

 

Ricerchiamo in tutta Italia un articolista perché nell’attuale organico non c’è nessuno che sappia scrivere in italiano.

Il candidato dovrà occuparsi della redazione di contenuti per il web di vario tipo e su vari argomenti, così a casaccio, tramite telelavoro.

Si richiedono:

– Diploma di maturità o superiore
– Esperienze lavorative pregresse in un settore misterioso (facoltativo, meno ne avete più abbiamo scuse per non pagarvi)
– Ottima conoscenza della lingua italiana e buona conoscenza della lingua inglese (o viceversa)
– Ottime capacità di trattare argomenti di vario genere (ma continuiamo a non dirvi quali)
– Ottime capacità organizzative e di lavoro in team (organizzatevi come vi pare, basta che ve la sappiate cavare da soli)
– Conoscenza nell’uso delle e-mail, di Skype, di WordPress e in ambito SEO (facoltative, meno ne sapete, meno vi paghiamo, come sopra)

Si offrono:

– Lavoro tramite telelavoro (Ssssssì…)
– Ambiente di lavoro stimolante ed in continua crescita (ma a voi che vi frega? tanto state a casa vostra)
– Formazione nel settore a 360′ (Continuiamo a non sapere quale sia il settore, ma è a 360 gradi)
– Flessibilità degli orari (State all’erta, possiamo contattarvi in qualsiasi momento)
– Retribuzione per articolo dai 0,50 centesimi ai 5 euro o più, con possibilità di realizzare quanti articoli si vuole. (Massì)

I candidati sono invitati ad inviare una breve presentazione e ad allegare un curriculum vitae aggiornato (il meno possibile così abbiamo la scusa per non pagarvi).

Fonte dell’annuncio: http://www.kijiji.it/annunci/offerta/roma-annunci-roma/articolista-web-writer-copywriter/49346535

Fonte immagine

La nobile arte del colloquio #1

Maggio è stato ufficialmente il mese dei colloqui: a causa di un’affascinante serie di coincidenze sono arrivato a farne più di trenta, quindi mediamente uno al giorno. Il che ha portato a due grandi risultati: il primo è che ora nutro un disgusto profondo e sincero verso il mio portfolio; il secondo è che a partire da oggi e per le prossime tre settimane offrirò alla comunità professionale un dettagliato resoconto di questo percorso di elevazione spirituale articolato in quattro tappe simboliche: Milano, Roma, Stoccolma, e ancora Milano. Insomma, una specie di guida per creativi alle prime armi scritta da un copywriter alle prime armi e mezzo.

milano la cacciata colloquioMilano [La Cacciata]

Il percorso inizia per caso, e inizia a Milano (e dove sennò?): navigando pigramente sul web mi imbatto in un evento dal titolo bizzarro organizzato da LBi Italia: il classico speed-date per pubblicitari con 9 direttori creativi internazionali, da Londra a Dubai, da Amsterdam a New York. Lo scopo è evidentemente quello di cacciare i migliori giovani creativi italiani verso lidi più remunerativi: malgrado sappia perfettamente che la mia ragazza avrebbe numerose obiezioni riguardo a questa eventualità noto con piacere che quel giorno sarò a Milano da un cliente, che l’evento si svolgerà in pausa pranzo, che c’è ancora un posto disponibile e che soprattutto la partecipazione è assolutamente gratuita; e così, con pochi colpi di mouse ben assestati, mi registro.

Arrivo sfatto, sudato e stazzonato perché secondo il sito dell’ATM il percorso più rapido era senza dubbio andare a piedi (un km e mezzo…), schivo con eleganza il ragazzo del WWF che vuole convincermi a donare soldi alle specie in estinzione senza sapere che noi copywriter lo siamo (secondi solo agli strategic planner, d’accordo), faccio lo sborone sfoggiando alla reception il biglietto virtuale su Passbook e ritiro alfine il tagliando numero 57 stampato su vile carta patinata. Si tratta di uno speed-date in piena regola: due colloqui da cinque minuti l’uno, roba che a confronto la Portfolio Night pare il congresso del PD.

Il primo che mi tocca in sorte è un indiano, un gentilissimo Buddha con un pizzetto degno del miglior Alexi Lalas che, poveraccio, ha già visto una quindicina di persone e sta più lesso di me. Annuisce tutto il tempo mentre lo stordisco con le mie chiacchiere e parla solo una volta, per chiedermi quanti follower ho su Twitter. Il secondo, londinese, è se possibile ancora più gentile e a quanto pare resiste meglio allo tsunami di Keynote: fa domande, commenta, e ride anche, nel momento in cui avevo previsto che dovesse ridere. Insomma, non male considerando il tempo da me dedicato a preparare la presentazione, cioè cinque minuti in aereo (mi sono sempre vantato di essere un buon improvvisatore).

Mentre caracollo via, penso che sia cosa buona e giusta scrivere a entrambi due righe su LinkedIn per ringraziarli. Nel trambusto ho dimenticato di segnare i nomi, ma che importa? Mi ricordo benissimo che iniziavano entrambi per G: recupero facilmente le generalità sulla pagina dell’evento, e il gioco è fatto. Per curiosità riguardo la lista dei direttori creativi, gente bella cazzuta, e a quel punto faccio una scoperta agghiacciante: i londinesi nell’elenco sono due. E tutti e due hanno il nome che inizia per G.

Il dubbio inizia a farsi strada. Riapro LinkedIn, controllo la foto del primo: sembra proprio lui.

Controllo la foto del secondo: pure. Due gocce d’acqua. Hanno pure la stessa identica camicia a quadretti da boscaiolo dell’Ontario.

Li confronto forsennatamente una decina di volte, senza venirne a capo, anche perché le foto non sono proprio dei primissimi piani. Dopo una rapida ma accurata analisi delle conseguenze, decido di scrivere anche al secondo.

Lo stesso identico messaggio.

E quindi mi immagino da giorni la faccia di questo povero direttore creativo londinese che si è visto comparire su LinkedIn la mia faccia da cazzo che lo ringraziava per un colloquio che non è mai avvenuto.

La morale, insomma, è che a volte due parole valgono molto più di un’immagine.

(Continua)

Savoir faire dal coiffeur

Savoir faire dal coiffeur

Non essendo unicamente ciò che facciamo, la scrittura non basta da sola per comunicare al mondo noi stessi, neanche se siamo copy. Le mondane vanità non risparmiano le nostre testoline sempre in febbricitante attività o sotto stress per le consuete consegne a stretto giro, e forse proprio per questo c’è chi è incline a calvizie e canizie piuttosto precoci.

Tralasciando il primo problema – non per indole femminista ma perché, collage a parte, poco c’è da fare – i capelli bianchi non sono mai una bella scoperta. Sì, sul creativo stagionato ma ancora competitivo possono anche essere considerati un toccasana per l’appeal ma nella copywriter over -enti non ancora approdata agli -anta non suscitano altrettanta soddisfazione.

Esempio.

copy: “Ommmmioddio mamma, guarda!”

mamma della copy: “Che cosa?”

copy: “HO UN CAPELLO BIANCO!”

mamma: “Io non vedo niente!”

copy: “Ci credo, se non metti gli occhiali!… Adesso?”

mamma: “Ma nnnooo, non è bianco: è biondo. Tu sei nata bionda e adesso ti tornano fuori i riflessi naturali.”

La stretta necessità di copertura del bianco crine non esaurisce però la casistica femminile: c’è anche chi semplicemente non si piace al naturale e vuole sperimentare colori diversi che la facciano sentire unica giorno e notte, anche in pigiama. Anche questo problema non sempre incontra la comprensione del mondo circostante.

Altro esempio.

copy: “Domani voglio andare dal parrucchiere, voglio cambiare colore.”

papà della copy: “Ma io non capisco, che bisogno c’è di cambiare colore?? Perché devi iniziare a tingerti prima del tempo?”

copy: “Non posso cambiare colore solo perché mi va?”

papà: “Quelle che si tingono i capelli mi danno sempre l’idea di essere donne insoddisfatte…”

copy: “… Eh, allora?”

Per alcune di noi una decisione così è già difficile prenderla, non ci aspetteremmo mai di trovare degli ostacoli proprio lì, nell’Eden delle colorazioni permanenti. Partiamo da casa con la testa infarcita d’immagini sfavillanti di attrici e modelle con tinte mozzafiato e descriviamo attingendo al nostro vocabolario cromatico la nuance che ci sembra più adatta al nostro incarnato oppure allo stato d’animo del periodo. Ma, ahimè, il coiffeur non ha una familiare mazzetta Pantone da farci scartabellare, non c’è un codice univoco per cui il colore che gli comunichiamo di voler esibire in giro sarà quello che poi lui applicherà alle nostre ignare chiome. O meglio, il codice esiste ma non è lo stesso con il quale noi identifichiamo i colori nella realtà.

Nella palette del parrucchiere è possibile ravvisare una discrepanza agghiacciante tra parole e suggestioni visive; a scanso di equivoci la illustrerò con le nozioni base da scatola da 12 di colori a spirito.

Castano = quasi nero. Per ottenere ciò che considerate banalmente MARRONE dovreste dire piuttosto “cioccolato”, specificando poi quale particolare sfumatura del suddetto gradite. Al giorno d’oggi c’è al latte, fondente, con le mandorle, al peperoncino e chi più ne ha più ne metta; non si capisce bene se una la tinta debba mangiarsela tentando il suicidio o annusarla per non mettere a repentaglio la linea con degli spuntini ipercalorici.

Caramello = quasi cioccolato (vedi sopra). Pensi di diventare leggermente più scura del rame e invece hai i capelli MARRONI, un’altra volta. E per la cronaca, con il termine “rame” io intendo un color carota, ARANCIONE, non il verde dei capelli del salame che piangeva sconsolato nella canzone di Battisti.

Mogano = se avete i capelli marroni scuri ma non esattamente neri, la sfumatura rossa che assumono quando siete al sole; punto. La sottoscritta ha riversato in una confezione di tinta tutte le speranze di una sé diversa per poi scoprire tre ore dopo il trattamento di aver pagato per riprodurre artificialmente il suo colore naturale, preciso identico. Volete una sfumatura sul prugna, più VIOLA? Il “nero ciliegia” è quel che fa per voi. Ma mi domando: perché inserire nella dicitura il nero? Sarà mica una ciliegia marcia? Andando a cercare casi analoghi in Natura esiste in effetti una particolare qualità di uva nera (che non è neanch’essa nera, è più sul viola scuro) da cui si ricava un vino chiamato Bordeaux. Ora però avvalorare le definizioni di gente esposta ad esalazioni d’alcool per combinare poi danni sulle teste delle clienti non mi pare cosa.

Rosso = ah ah ah, ma che vuol dire “rosso” da solo se non ci metti una parola dopo?

Biondo = ma sei scema?

Nero = ammazzati.

Un appiglio empirico può essere decidere il destino della propria capigliatura osservando il campionario di ciocche: una tristezza epica. Anche perché ci fosse una volta che quei poveri mucchietti di peli assomiglino a colori di teste che vedete a spasso. A forza di ipertecnicismi come “più chiaro” o “più scuro dell’altra volta” i cambiamenti che otteniamo sono o drastici o minimi, forieri della medesima ineluttabile frustrazione. Almeno fino al prossimo shampoo.

 

(Un particolare ringraziamento a Laura Grazioli, Elisa Gattamorta e alle mie tinte nero ciliegia, inconsapevoli muse ispiratrici di questo post.)

Lavoro da casa: I look like a freelance copywriter.

Cosa è cambiato nel mio primo anno di domiciliari.

Quasi un anno fa mi trasferivo da una regione all’altra, ma conservando il mio lavoro di copywriter con l’agenzia per cui lavoravo. Però a distanza. Gran comodità. Il percorso che devo fare per arrivare in “ufficio” si è ridotto da 15 km a 15 metri. Praticamente la somma dei metri che percorro lungo il tragitto camera da letto-bagno-cucina-bagno-salotto. Forse è un po’ sedentario, ma in compenso si risparmia parecchio di benzina.

Seguo sempre gli orari dell’ufficio, ma mi risparmio gran parte dell’ansia che permea tutti gli uffici del mondo (facendomi comunque venire ansie per tutti gli altri motivi possibili). Ho continuato a coltivare la mia vita sociale con i colleghi, con cui già parlavo ogni giorno via Skype, da piano a piano, da stanza a stanza e, addirittura in un caso, da schiena a schiena. Aggiungiamo anche l’indubbio vantaggio di poter imprecare senza vergogna qualora l’occasione lo richieda.

Insomma, che cosa è cambiato? Me ne sono accorta facendo il cambio di stagione: mettevo via i vestiti della collezione autunno-inverno che non ricordavo più di avere, e li sostituivo nell’armadio con quelli della stagione primavera-estate che, a questo punto, non so se indosserò più. Da un anno infatti il mio abbigliamento quotidiano è costituito da pochi e ben selezionati indumenti, attentamente studiati a seconda dell’occasione d’uso (come direbbero a “Ma come ti vesti?”).

Ecco una rapida carrellata, accompagnata dalla colonna sonora che mi sembrava più adatta:

Giornata di lavoro tipo

Versione autunno-inverno

abiti inverno lavoro da casa copywriter

 

Versione primavera-estate

abiti estate lavoro da casa copywriter

 

Conference call

Occorrente:

accessori lavoro da casa copywriter

Naturalmente sostituisco la felpaccia di pile con abbigliamento (top) più consono.

UPAC camicia

… E sotto posso continuare a indossare i pantaloni della tuta, i calzettoni con le dita che fanno impressione pure a mio marito e, volendo, anche le comodissime pantofole a zampa di dinosauro, immancabili tra gli accessori per chiunque abbia scelto il lavoro da casa.

UPAC calzettoni   UPAC pantofole a zampa

 

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