C’era una volta un berretto. Una storia
da raccontare ora.
Circa una settimana fa, cercando un documento nel computer, mi sono imbattuto in una cartella intitolata “frammenti”. Me n’ero quasi dimenticato. Una raccolta di storie brevissime, scritte di getto alcuni anni fa, a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, impresse sui fogli di text edit con i caratteri della tristezza. Le ho riscoperte con affetto per il me stesso che in quel momento si era perduto, ma non senza un certo imbarazzo. Non è facile riconoscersi dopo che la serenità ha spodestato la cupezza. Il fatto curioso è che rileggendo il frammento che riporto qui di seguito in corsivo mi è venuta un’idea. In cosa consiste ve lo dirò poi.
“Parlo di un mese fa. Da allora non è cambiato nulla. La malinconia mi divorava l’anima. E non perché fosse un sabato pomeriggio di fine estate. Non mi ha mai minimamente toccato l’eutanasia di una stagione in cui i più sono convinti sia lecito fare ciò che nelle brume d’autunno, nelle luci elettriche invernali e nell’aria clorofillosa della primavera non si farebbe. Sta di fatto che acquistai un berretto di panno da marinaio. Ruvido, pesante, quasi a voler catapultarmi di colpo avanti nel tempo, nella stagione successiva, per cercare di anestetizzare il presente.
Bizzarro forse. Almeno quanto il fatto di provare un’inedita forma di piacere nel trovarmi in un centro commerciale, tipo di luogo che ho sempre frequentato il meno possibile. E non per ricevere il plauso delle conventicole snob etno-firmate, lontane da me almeno quanto lo sono gli Oasis dai Coldplay, ma per via dell’aria dolciastra incellophanata che vi regna sovrana. Per non parlare del ronzio di impianti di diffusione sonora che propagano musica escrementizia, per fortuna destinata a giungere indefinita alle orecchie del formicaio che affolla il suolo, giustamente condannata a rimanere sospesa nel limbo di bagliore al vetrocemento che ristagna sotto volte e soffitti.
Eppure, quel pomeriggio, tutto ciò riusciva a rasserenarmi, per il semplice fatto che l’angoscia della solitudine senza appello veniva temporaneamente messa in pausa. Momentaneamente. Sarebbe infatti stato ingenuo immaginare che una volta apertesi le porte automatiche sull’afa asfaltata del parcheggio, il tasto play non facesse ripartire il nastro con registrato sopra il silenzio inquieto della depressione ansiosa. Però tenevo in mano il mio nuovo berretto di panno da marinaio. Per meglio dire: mi aggrappavo a esso con tutto il corpo e lo spirito, coltivando la vana speranza che prima o poi mi conducesse verso l’invisibile, lontanissimo approdo oltre le profondità in cui ero finito. Nelle quali mi trovo ancora.
Ebbene, quel copricapo, comprato con la scusa di rubare con lo sguardo e il pensiero un antidoto per l’infelicità a degli estranei, quell’accessorio sufficientemente stiloso da indurmi quel giorno, quando la vanità avrebbe dovuto restare in panchina, a domandare allo specchio “come mi sta?”, lo sto indossando proprio adesso, mentre scrivo. Cosa, quest’ultima, che sto facendo scomodamente seduto sul coperchio della tazza del cesso, alzando ogni tanto gli occhi dal quaderno aperto sulle mie prospettive incolori per osservare il mio mezzo busto riflesso sulla parete sopra il lavabo, inquadratura buona per un film tanto pretenzioso quanto scadente, la cui sceneggiatura inizia dalla fine. La mia. La mia fine come “io”. Ho deciso infatti che voglio riconvertirmi in un “tu”. Non sarà più: “Io ho comprato un berretto”, ma “Tu hai comprato un berretto”. Penso che guardandomi dall’esterno mi sentirò meno coinvolto da ciò che mi accade. Un buon modo per ricominciare.
Sento un gran caldo alla testa, qui, ora, il ventinove settembre di uno degli anni climaticamente più roventi degli ultimi cinquant’anni, ma ho deciso che non mi curerò del sudore che dal cranio soffocato dal tessuto spesso mi sta colando giù sulla fronte; in avvenire cercherò di dare minore importanza possibile a tutto ciò che mi riguarderà sotto il profilo del piacere e del dispiacere. Per quanto concerne l’immediatezza del presente continuerò a osservare – tra un punto e una virgola vergati in pessima calligrafia sull’infantile foglio a quadretti su cui sto annotando il mio fallimento sentimentale – il “tu” di me stesso clonato dal vetro arricchito di metallo che mi sta di fronte. Augurandomi che di quell’immagine io prima o poi riesca a leggere tra le righe qualcosa di significativo. Di significativo per gli altri. Solo allora mi toglierò il berretto di panno da marinaio.“
La storia termina così, con parole dettate da un cuore ridotto a portacenere, come quello cantato dai Placebo in un brano che al tempo ascoltavo spesso per trovare un riscontro elettrico-lirico al mio dispiacere.
Quel berretto di panno da marinaio non lo indosso più da un pezzo. Fortunatamente la tempesta è passata. Al suo posto – e veniamo all’idea cui accennavo all’inizio – mi sono messo in testa un’altra cosa. Più futile ma più utile. Mi piacerebbe trasformare le parole a suo tempo intessute su quel copricapo nel punto di partenza di un progetto di storytelling per una fashion label. Se sentite dunque di un’azienda del settore accessori moda interessata a una storia che abbia come protagonista un berretto, fategli pure il mio nome. Non si sa mai. Grazie. E tanto di cappello alla vostra gentilezza.
