Frosinone Culone: la storia, il mito, gli eroi.

Allontana Pugnitopo

Il tormentone di Frosinone.

A molti non sarà sfuggito l’ultimo, scoppiettante trend del mondo social: Frosinone Culone!

Ma in cosa consiste esattamente? Si invia un messaggio privato alla pagina ufficiale di un brand (meglio se si tratta di un’associazione sportiva, meglio ancora se di una squadra di calcio) e si chiede se si tratti della pagina ufficiale. Alla risposta affermativa, si risponde di getto “Frosinone Culone!”, e poi via ad arricchire la collezione personale di screenshot.

Il gesto goliardico, è intuibile, è partito dalla pagina del Frosinone Calcio, complice il recente esordio dei ciociari nella massima divisione calcistica nostrana.

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In breve tempo, tuttavia, il fenomeno si è esteso ad altre squadre, fino a lambire pagine che col calcio non hanno davvero nulla a che vedere.

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Ma perché tutta questa insistenza? Basta un rapido sguardo alla classifica per verificare come la stagione del Frosinone sia stata finora decisamente deludente: a tutt’oggi (venticinquesima giornata) 6 vittorie, 4 pareggi, 22 punti appena, per una terzultima posizione che non lascia presagire nulla di buono. Né il club frusinate sembra essersi macchiato di immeritati colpi di fortuna durante gli incontri con i team dei piani alti, tali da poter indirettamente condizionare l’esito del campionato. Da dove ha origine allora questo tormentone? Chi è stato il primo a pronunciare le due fatidiche parole?

La partita del secolo.

Per rispondere a questa domanda, bisogna fare un salto indietro di ben 22 anni per rivivere le gesta di due straordinari eroi. Grazie all’impareggiabile Wikipedia conosciamo anche la data esatta: il 24 Aprile del 1994. È la terzultima giornata del Girone G del Campionato Nazionale Dilettanti, e sul campo del Frosinone la capolista Giulianova è attesa dallo scontro diretto con la seconda in classifica. Gli abruzzesi vantano due lunghezze di vantaggio sui laziali, dunque con una vittoria chiuderebbero virtualmente il discorso qualificazione, guadagnandosi il meritato ritorno in Serie C2. Un pareggio andrebbe comunque bene, poiché lascerebbe invariate le distanze. Ma la sconfitta complicherebbe drammaticamente la situazione, poiché garantirebbe il sorpasso ciociaro, condannando il Giulianova a non essere più unico arbitro del proprio destino.

In campo la sfida è vibrante. I padroni di casa fanno sul serio, e si portano in vantaggio al 12′ con un colpo vincente di Pesacane. La replica giuliese non si fa attendere molto: al 35′ arriva il pareggio di Minuti. Ma dopo pochi minuti la situazione si complica nuovamente: al 40′ viene espulso Di Bari. Il Giulianova soffre l’inferiorità numerica, e al quarto d’ora della ripresa il Frosinone torna a colpire: è Russo che al 61′ insacca per i padroni di casa. I giallorossi precipitano di nuovo nell’incubo.

Sugli spalti c’è un uomo che soffre più degli altri. Vive l’angoscia fino in fondo, e la racconta con la sua inimitabile voce. Quell’uomo è il nostro primo eroe. Quell’uomo è il radiocronista del Giulianova. Quell’uomo è Francesco Marcozzi.

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Il nostro geme, sbraita, impreca come solo un vero tifoso potrebbe fare. La sua radiocronaca è talmente sentita che un tifoso la registra e la monta su una ripresa amatoriale del match. Il video finisce sul tavolo della Gialappa’s Band, e in breve tempo si trasforma in uno dei servizi cult nella storia di Mai Dire Gol, citato a memoria negli anni da ogni vero amante del calcio italiano: un buon esempio di quel viral pre-internettiano che ha indubbiamente trovato nel Magnotta la sua vetta più cristallina (ma questa è un’altra storia).

https://www.youtube.com/watch?v=MILUzh7p8Kg

Vale senz’altro la pena di riportare la trascrizione dei momenti salienti della radiocronaca:

“Allontana Pugnitopo! L’11 in fuorigioco! ASINOOOOO! Attenzione pericolo! FUORIGIOCO! Era fuorigioco, il guardalinee non vede… FUORIGIOCOOOOO!!! Un ingapace, un ingapace… […]
Carabinieri, Polizia, arrestate il guardalinee! RAI, RAI, il guardalinee! Intervistate il guardalinee![…]
Parisi, traversone, in area, c’è Di Vincenzo, di testa… La palla va fuori, è punizione dice l’arbitro! […]
C’era stato un fallo, io l’ho visto, ma c’ha fatto l’arbitro? CORNUTI! Allora, stavamo parlando, come avete potuto capire dall’aggettivo, del guardalinee… […]
Ecco che si batte, tiro, TIRO, GO…PALOOOOO! PALO!!! Palo a portiere battuto, secondo una jella scarogna di tutti i colori! La difesa del Frosinone è stata fortunata, il portiere culone! […]
Vero, è stato fortunato il portiere? Frosinone culone! FROSINONE CULONE! MANNAGGIA LA M******!”

Ecco dunque svelata l’origine del mito: un palo a portiere battuto, che unito all’arbitraggio ostile condanna il Giulianova alla resa (l’arbitro, per la cronaca, era Ayroldi di Molfetta, in seguito illustre fischietto nella massima divisione). Ma è davvero tutto finito? C’è ancora tempo per un ultimo, disperato assalto.

In campo c’è un giocatore che ha disputato una partita esemplare, fatta di sacrificio e sudore. Marcozzi l’ha citato solo di striscio, ma basta un attimo per passare alla storia. Quell’uomo è il secondo eroe della giornata. Quell’uomo allo scoccare del 90′ segna il gol dell’incredibile pareggio. Quell’uomo è Sauro Pugnitopo.

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L’importanza di chiamarsi Pugnitopo.

È una vera beffa che alla storia non sia stata consegnata la registrazione del liberatorio urlo con cui l’incredulo Marcozzi avrà con tutta probabilità accolto il salvifico pareggio. Ciononostante, il granitico “Allontana Pugnitopo!” con cui si apre il frammento di telecronaca è bastato per scolpire il suo inconfondibile nome nella leggenda più autentica.

Ma chi era Sauro Pugnitopo? Grazie all’inestimabile lavoro di ricerca storiografica dell’equipe di TuttoCalciatori, possiamo ricostruirne le gesta.

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Roccioso stopper, Sauro Pugnitopo nasce a Gubbio il 23 Novembre 1967.
1 metro e 89 per 78 chili, muove i primi passi proprio nel club umbro, ma dopo sei stagioni arriva la svolta: l’ingaggio del Giulianova coincide con una felice ascesa, dai Dilettanti fino alle vette della C1. Tre reti appena con gli abruzzesi, ma pesantissime: una in particolare, la nostra, si rivela decisiva. Perché il Giulianova pareggia l’incontro, mantiene il Frosinone a distanza e chiude il girone al primo posto, centrando una fondamentale promozione. Due anni dopo la storia si ripete: dalla C1 alla C2, davanti c’è ancora lo spauracchio frusinate. Pugnitopo quella volta non segna, ma con le sue 33 presenze stagionali si conferma una delle colonne della squadra. Il finale di carriera si rivela meno emozionante ma dignitoso: c’è tempo anche per un ritorno nella natìa Gubbio. Il nostro chiude con 415 presenze, 8 reti e due strepitose promozioni conquistate sul campo.

Su Pugnitopo, incredibilmente, si è detto e scritto molto più di quanto si potrebbe pensare. Tra il nome arzigogolato, il leggendario pareggio e l’immortale invito ad allontanare ce n’è abbastanza perché al nostro siano state dedicate pagine Facebook, meme e persino magliette. Sul sito keepcalm-o-matic.co.uk, per esempio, è possibile acquistare questa meravigliosa t-shirt (sì, ovviamente io l’ho fatto):

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Il punto è che Pugnitopo rappresenta il bene. È colui che, “allontanando” il male, riesce a sconfiggere il nemico più temibile: il Frosinone Culone. Ecco perché i bravi Community Manager sanno che è necessario chiamarlo in causa per rispondere come si deve.

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Perché Pugnitopo sa allontanare tutto. Anche i troll.

United Tales Of America.

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Resoconto millesimato di una settimana di viaggio negli USA: tre giorni di cazzeggio a New York, tre giorni di conferenza a Boston.

In viaggio

Quando partite per una traversata intercontinentale, ricordatevi sempre che fare il copycheck è molto importante. Soprattutto quando compilate l’ESTA. Il mio art non l’ha fatto e ha dovuto pagare subito 42,00 € tra spese e commissioni per rifarlo.

L’accoglienza nel nuovo mondo incute un po’ di timore. Alla dogana il nero incazzato nero di default mi ha chiesto che lavoro faccio: io ho mentito e ho risposto “I work in advertising”, anziché “I tell lies on behalf of companies”.

Il momento più emozionante dell’arrivo è arrivato comunque subito dopo, quando abbiamo dovuto ripescare dopo 13 ore di trasvolata un mazzo di chiavi seppellito in una fioriera di Manhattan. Senza dubbio la miglior risposta alla domanda “Perché scegliere Airbnb invece dell’hotel?”.

In generale gli americani amano gli ampi spazi, e provano piacere nel percorrerli facendo dispendio di più energia possibile. Devono sprecare, sennò si sentono europei, e questo li fa star male. Manhattan è un budello, sarebbe il posto ideale per le city car, eppure tutti si ostinano a guidare macchine lunghe e grosse. Avremo avvistato giusto un paio di Fiat (ovviamente Abarth). Non stupisce che i treni siano di livello mediocre. Per spostarci da New York a Boston (circa 300 km) abbiamo impiegato più di quattro ore, accumulando oltre mezzora di ritardo. In Italia avremmo impiegato la metà, grazie alla nostra meravigliosa TAV. Lì la TAV non sanno neanche cosa sia, e un treno che va a 300 all’ora gli pare inutile fantascienza. Semplicemente, dei treni non gli importa nulla: New York-Boston si fa in auto, o meglio ancora, in aereo. Se non spargi monossido di carbonio, non sei nessuno.

A Boston invece glien’è fregato cazzi ai controlli di sicurezza di dove volavamo, moduli e cavoli vari. Erano soprattutto piacevolmente ansiosi di mandarci fuori dalle balle il prima possibile: in questo gli americani sono impagabili (ben più ansiosi invece a Londra dove non si fidano dei controlli di sicurezza fatti dagli altri e nel dubbio li rifanno a tutti i passeggeri in transito). Unica accortezza, la doccia di raggi x totale con le mani alzate. Che ci vuoi fare, sono fatti così.

New York.

Così a prima vista, New York pare una versione pompata di Londra. Gli americani non perdono occasione per dimostrare davvero un pessimo gusto nella scelta dei font, però a differenza nostra hanno le banconote da 1 dollaro, che ti fanno capire meglio il valore dei soldi. Mica le monetine sceme che abbiamo noi. Quindi, stima.

Anche l’odore dell’appartamento era molto simile all’odore della mia casa londinese, comunque. Un odore particolare, moquette polverosa mista a legno umido. Non necessariamente sgradevole ma comunque pungente. Dev’essere un tipico odore anglosassone.

Da dove iniziare, se non da Times Square? L’avevo sempre considerata una gigantesca affissione sparaflesciosa. Ma poi finalmente l’ho vista e ho capito che dovevo diffidare delle apparenze: Times Square è veramente una gigantesca affissione sparaflesciosa. Non c’è niente da vedere se non la pubblicità: e il fatto che la gente ci vada proprio per guardare la pubblicità mi ha fatto sentire per la prima volta veramente orgoglioso del mio lavoro. Anche se, ora che ci penso, in vita mia ho fatto solo un’affissione. E non era neanche sparaflesciosa.

La prima mattina abbiamo fatto colazione in un bar qualsiasi: c’era questo tipo sulla sessantina che indossava tranquillo un grosso cappello da cowboy. Avrei voluto abbracciarlo fortissimo, se solo non avessi temuto che mi avrebbe sparato con la 44 Magnum che senz’altro teneva in tasca. Non ho dubitato neanche per un istante che il nostro voterà Trump: sono i vecchi repubblicani come lui che hanno fatto grande questo paese. Il caffè macchiato che avevo ordinato faceva schifo esattamente come temevo, dunque sono uscito pienamente soddisfatto.

Che caos la metro di New York! Oggi diremmo che non è stata progettata tenendo conto della user experience; la verità è semplicemente che è fatta a cazzo, senza seguire il criterio europeo tradizionale, numeri, sigle e biforcazioni buttate lì random. Per fortuna in casa avevo trovato una vecchia copia de “Il Codice Da Vinci” e così sono riuscito a decifrare il percorso da fare per arrivare al Greenwich Village rileggendo il capitolo in cui Robert Langdon e la pronipote di Gesù Cristo aprono il caveau della banca svizzera usando la sequenza di Fibonacci.

Ma vale davvero la pena di prendere la metro? All’Oyster Bar della Grand Central Station le ostriche partono da 2 dollari l’una. Un biglietto della metro per arrivare alla Grand Central Station costa 3 dollari. Quindi il consiglio che vi dò è senza dubbio farvela a piedi, così potete ordinare un’ostrica in più.

Certo, alla fine la metro sembra comunque il male minore: finalmente ho trovato una città paragonabile a Roma in quanto a traffico. Era un po’ che non provavo l’emozione di restare bloccato in una coda senza via di uscita, e senza sapere quando finirà. Eppure come dicevo le metro non mancano. Dev’essere che Dan Brown non ha avuto molto successo, non c’è altra spiegazione.

Le sirene della polizia invece sono buffissime, quasi ridicole: sembrano prese pare pare da un videogioco di terza categoria del 1992. Bei tempi, comunque, quando bastava la cartuccia per il Game Boy di Street Fighter II per dare senso persino a uno stupido pomeriggio piovoso di novembre.

Gli USA comunque sanno anche essere magnanimi: una sera un tizio mi ha chiesto un documento per verificare che avessi l’età minima per bere alcolici. Che è 21 anni. E no, non è il caso di fare battute sceme, perché quel pover’uomo chissà che problemi di vista ha. Maledette assicurazioni sanitarie private.

L’ultima sera nella Grande Mela siamo andati a cena in un posto sciccoso. Il fatto è che, malgrado nella lontana Estate del 2011 io abbia conseguito un leggendario (ancorché tuttora inspiegato) punteggio di 101/120 al TOEFL, non abbiamo capito una ceppa. Sarà stata la musica forte, ma proprio non si capiva cosa dicevano i camerieri. Per non fare la figura degli scemi abbiamo risposto un sì convinto a ogni domanda, e ci siamo ritrovati destinatari di un flusso ininterrotto di pietanze sperimentali a base di pesce, ma roba tipo piovra, ravanelli, mirtillo e popcorn dolce (tutto nello stesso piatto). A un certo punto sono arrivati altri due cocktail e abbiamo capito che ci avevano estorto un secondo giro. Tutto buono, eh, solo volevo chiedervi se tante volte avete una frilensata da girarmi. Grazie.

Va detta una cosa, in conclusione: New York è figa, ma è brutta forte. Grossi palazzoni grigi e (soprattutto) marroni, alcuni neppure alti. Ma è proprio questa la lezione di New York: non c’è bisogno di essere belli per essere potenti. Valencia ha un centro storico che è un gioiello, ma non conta un cazzo. New York il centro storico non ce l’ha neanche, ma con i suoi palazzoni fallici alti in modo quasi esagerato può decidere quanto durerà il tuo prossimo mutuo.

Il sogno americano.

Il memoriale dell’11 Settembre è un bel monumento: semplice, sintetico, denso di significati. Due fontane quadrate ricavate nelle profonde fondamenta delle due torri. Al centro di ciascuna vasca, una nuova cascata: la fine, inutile dirlo, non si vede. Tutto intorno, ovviamente, i nomi delle vittime incisi nel marmo scuro. Mi ha ricordato, per rigore e carica poetica, il monumento più geniale eretto nel nuovo secolo: il memoriale per le vittime del nazismo di Berlino. E qui c’è tutta la differenza tra America ed Europa. Perché il monumento americano trasuda ancora stupore per l’accaduto: a noi non succederà, non ci faremo rovinare le nostre città come voi stupidi europei, nessuno potrà scalfire i nostri prepuzi di cemento armato. Saremo migliori di voi. E invece. Il monumento tedesco, al contrario, è un monito. Prima di tutto verso se stessi: una rappresentazione dettagliatissima di come si arriva, passo passo, a prendere sotto braccio l’orrore. C’è dentro tutta l’angoscia di un popolo che si è risvegliato dall’ipnosi con una mannaia insanguinata in mano, con il terrore, se si distrae nuovamente un solo istante, di ritrovarsi di nuovo nel baratro. Ecco la differenza: New York onora le prime morti che ha subìto, Berlino si dispera per le morti che ha causato. L’Europa è più adulta.

Il nuovo World Trade Center comunque è bello. Sembra un po’ una piccola Piazza Gae Aulenti.

Amiamo ripetere spesso che il toro va preso per le corna. Poi ho scoperto che invece dalle parti di Wall Street c’è l’usanza benaugurante di tastare lo scroto dorato della statua del toro. Pare che porti fortuna. Ma perché non ci abbiamo pensato prima? Il toro non va preso per le corna: va preso per le palle.

Quante emozioni sulla 5th Avenue! Mentre ero in un negozio, indeciso se comprare o no una borsa, improvvisamente è partita “Man In A Suitcase” dei Police alla radio. Inutile dire che l’ho presa subito. È bello che Gordon, Andy e Stewart trovino il modo di consigliarmi anche in differita, a 35 anni di distanza. Devo ricordarmi di seguire sempre le sensazioni.

Poco più avanti invece c’era la sede della Sliding Door Company, a quanto pare il principale installatore di porte scorrevoli. Ma per entrare, c’è una porta a spinta. Applausi.

Lo shopping però nel complesso mi ha deluso. Curiosamente tutti sono scimmiati con la 5th Avenue, quando invece su Madison Avenue ci sono molti più negozi, molto più belli. Ma si tratta di alta moda. Anche setacciando con cura il Greenwich Village, invece, non escono fuori grandi cose in quanto a moda indie: detto fuori dai denti, Camden Town e Friedrichstrasse gli fanno un culo così. E probabilmente persino Porta Portese non è messo male. Tutto questo per dire che, ahimé, non ho trovato nessuna camicia di mio gradimento.

Il terzo giorno mi sono dato appuntamento con Maria, una mia vecchia amica dell’Erasmus. Lei vive in Nebraska, ma proprio in questi giorni era a New York per un corso di aggiornamento, una coincidenza semplicemente assurda di cui non potevamo non approfittare. A Gennaio ha perso il fratello maggiore per un tumore meschino che se l’è portato via in dieci settimane, una di quelle cose per cui uno vorrebbe afferrare Dio con la forza e mentre due amici lo tengono fermo dargli un bel po’ di pugni seri sulla bocca dello stomaco. Forte. Invece quel vigliacco non si fa trovare mai. Lei però il sorriso non lo avevo perso, e neanche quella gentilezza così leggera e sensata che possiedono gli americani quando sono intelligenti. Abbiamo parlato a lungo, con tutta la piacevole fatica del dover capire e farsi capire. Quanti amici che ho a dieci chilometri da casa, invece, e per un motivo o per l’altro non vedo da mesi.

Gli americani, comunque, su alcune cose sono stupidi. Ma proprio stupidi stupidi stupidi. Diluvia, c’è un’umidità che levati, forse c’è pure l’uragano Joaquim in arrivo, e loro tengono l’aria condizionata a stecca. Senza motivo. Io amo l’aria condizionata, è un diritto inalienabile dell’umanità, sono disposto a battermi per essa, ma magari fuori è Ottobre. È  Ottobre, cazzo. Per carità, capisco la rivalità storica col Giappone, ma un modo meno autolesionista di violare il Protocollo di Kyoto secondo me si trova.

E gli hamburger? Per carità, lo sanno tutti che le proteine animali fanno male. Lì però le hamburgerie più blasonate si compiacciono con orgoglio di non aggiungere nulla alla loro carne: antibiotici, ormoni, conservanti. In pratica si vantano di qualcosa che dovrebbe essere il minimo sindacale, un po’ come se io dicessi di essere una persona dal cuore d’oro perché anche oggi non ho sgozzato nessuno con una grossa sega arrugginita. Mah.

Essendo il mio primo viaggio fuori della mia cara Europa (da buon romano, ogni volta che mi sono trovato a visitare qualche provincia dell’impero mi sono sempre sentito a casa), da incrollabile eurocentrista mi sono chiesto se, per contrapposizione con gli USA, sarei riuscito a identificare qualche tratto comune che contraddistingue la cultura europea in generale, al netto delle differenze nazionali. La risposta è sì. Oltre al calcio, noi europei abbiamo un rapporto sereno con i pagamenti. Quello americano è invece schizofrenico. Tanto per cominciare, i prezzi esposti sono sempre netti: l’IVA viene conteggiata sempre dopo, alla cassa. È come se volessero prendere le distanze dallo stato: come dire, fosse per me te lo farei pagare solo x, ma per colpa dello stato porco bastardo bastardo porco sono costretto a fartelo pagare y. Ma ancora più sorprendente è la situazione delle mance: i camerieri vengono pagati anche solo due o tre dollari l’ora, e i soldi per campare li alzano grazie a queste somme, teoricamente non dovute, tacitamente estorte ai clienti con percentuali talvolta spropositate. Persino il 25%, che su un caffè sposta poco, ma su una cena sposta tanto. Una specie di sistematica evasione fiscale legalizzata. Una specie di lobby o, se preferite, una specie di mafia.

Gli americani, però, hanno anche un grande pregio, che è lo spirito patriottico. Quando decidono che devono unire le forze per sistemare qualcosa sono impareggiabili. Guardavo le immagini di New Orleans durante una partita di football, a dieci anni di distanza dall’uragano sta meglio di prima. Noi europei (e in particolare noi italiani) dovremmo imparare a mettere da parte i campanilismi quando c’è un problema serio da affrontare e unire le energie. In questo gli americani possono essere un bellissimo esempio. Poi certo, pensi che molti di loro moriranno senza essersi mai fatti un bidet, e a quel punto il giudizio inevitabilmente si ridimensiona.

Le arti.

Meravigliosa idea la High Line: una vecchia ferrovia in disuso trasformata in un parco sopraelevato. Non ho potuto fare a meno di chiedermi che fine farà la tangenziale di Roma quando fra qualche decennio l’auto cadrà in disuso. Forse è meglio non saperlo.

Il MoMA è un diario impietoso del rapporto tra Europa e USA. È zeppo di capolavori europei: testimonianza del fatto che senza l’impronta dell’Europa gli USA non avrebbero alcuna personalità, ma anche del fatto che l’Europa si è lasciata allegramemte surclassare dalla sua creatura. Un furto travestito da celebrazione, insomma.

La spirale del Guggenheim invece era chiusa per allestire una mostra su Alberto Burri. Alberto Burri. Sì ok, è italiano. Per carità. Ma Alberto Burri. La spirale del Guggenheim. Alberto Burri. Ma porca puttana.

E la musica?  Gli USA sono la patria del jazz, per esempio. Ma occhio al Blue Note. Perché qui c’è quello vero, mica quello imbruttito lombardo. Meglio documentarsi prima sul gruppo della serata: quello che abbiamo visto noi ha atteso coscienziosamente 43 minuti per cominciare a suonare musica (quella cosa che di solito ha un ritmo e una melodia, no?). Prima, solo strombazzate sfiatate, gomitate sulla tastiera e note a caso. Non ho mai visto quattro persone così impegnate a non produrre nulla di neanche vagamente godibile. Un giapponese in mezzo al pubblico non ce l’ha fatta e si è addormentato, poverino. (E comunque il Mai Tai a Isola lo fanno più buono.)

Alti e bassi, insomma: una sera ci siamo dovuti sorbire “Pappà l’Americano” durante l’aperitivo di fine giornata, e addirittura un incredibile Biagio Antonacci mentre aspettavamo il treno per Boston alla Penn Station. Ma vedere gli americani che canticchiano la loro musica è bellissimo: per noi sono frasi d’importazione, per loro sono parole vive, quotidiane. Mentre finivamo di bere l’ultimo cocktail dell’ultima serata “Mo Money Mo Problems” di Notorius B.I.G. era semplicemente perfetta; e lo dice uno che i rapper li prenderebbe tutti a sprangate sulle rotule, dove fa più male.

Alla fine ho comprato il libro di Humans Of New York. Volevo leggerlo in treno, in viaggio verso Boston, e però mi sono addormentato.

Boston.

Ma che carina Boston! Lontana dal caos machista di New York, se ne sta acquattata sull’oceano con le sue università e le sue ostriche, rilassata e calma. Sarà perché è stata la città da cui è partita la rivoluzione con il famoso Tea Party, e quindi è forse l’unica grande città ad aver conservato la sua originale fisionomia europea. In effetti quando ho protestato perché un tizio mi stava mettendo sotto con la macchina lui mi ha fatto amichevolmente il gesto della decapitazione con la mano, e insomma mi sono sentito subito a casa.

A Boston si fanno i frustoni, comunque. La prima sera andando a cena siamo passati per il parco e c’era una smella di erba che pareva di essere in via Zamboni il Primo Maggio.

Quando nei film americani fanno vedere il fumo che esce dai tombini uno pensa che succede solo a Gotham City nel rifugio di Pinguino, invece succede veramente. Persino a Boston. Ma cosa sarà quel fumo? Non sono sicuro di volerlo sapere.

La conferenza.

La conferenza della Direct Marketing Association, finalmente; che poi era il motivo effettivo del viaggio. Nell’entusiasmo dei preparativi, ci eravamo dimenticati di portare i biglietti da visita. Domanda legittima: servono davvero, nell’epoca di LinkedIn? Secondo me no, ma nel dubbio il mio art ha escogitato una mossa semplice ma geniale qualora ce li avessero chiesti: dire che li avevamo già finiti. Inutile dire che ha funzionato alla grande. Ma quanto siamo stati disruptive, eh? Quanto?

Il problema reale, in una fiera sul direct marketing, è che il 90% degli espositori non hanno praticamente nulla da mostrare, perché sviluppano piattaforme per collezionare e intersecare informazioni (i famosi big data). Servizi applicati ai servizi: il livello di astrazione è semplicemente troppo alto per poter realizzare una demo sufficientemente avvincente. Per questo motivo puntano tutto sui gadget, il più delle volte terribilmente scemi e totalmente scollegati dal brand. Il format è: saluti di circostanza, scansione del qrcode sul badge (sì amici, il qrcode è vivo e lotta insieme a noi), carriole di gadget. In pratica ti estorcono i dati personali in cambio di un oggetto stupido ma GRATIS. Tanta roba: i più banali hanno delle stupide penne (per carità, prese anche quelle), i più geniali regalano emozioni vere. Nella mia personale top 3 si sono collocati:
– Grattaschiena in plastica bianco, quello con la manina per intenderci;
– Mega impianto di hockey balilla con tanto di musichette a tutto volume nello stand delle poste canadesi;
– Scimmia volante, che si carica con un elastico nelle zampe a mo’ di fionda e si lancia a tutta forza.
Per quella che è la mia visione del mondo e della vita, la scimmia volante è valsa da sola l’intera settimana di viaggio negli USA.

Cosa non si fa per avere un gadget, comunque: sorbirsi un quarto d’ora di presentazione di una piattaforma di data analytics per avere un elefantino di peluche, oppure scolarsi un Moscow Mule alle tre di pomeriggio per avere una (ambitissima) tazza di Adobe.

Quando dicevo che eravamo italiani, comunque, facevano sempre una faccia stupita, come se avessi detto che tutti i giorni a colazione inzuppo la pancetta nel Nesquik. Neanche gli avessi detto che avevo aperto un’agenzia su Kepler 452-b ed ero in cerca di partner per fare new business. E così quando gli abbiamo detto che eravamo italiani, il tizio delle poste canadesi ha spalancato il suo miglior sorriso e ci ha detto “Bonjour!”. Uomo di mondo. C’era una sola cosa da fare: lavare l’onta battendo il Canada 4-3 a Hockey Balilla. Bonjour un cazzo.

In ogni caso, mi sono riconfermato Gran Maestro del Buffet. In particolare grazie alla celebre tecnica della “terza mano”, da me ideata e perfezionata, con cui riuscivo a mangiare un miniburger tenendo saldamente il bicchiere di prosecco mentre afferravo al volo una tartina. Devo proprio decidermi a fare quel videotutorial su YouTube, sono ormai in troppi a chiedermelo.

Quelli del marketing comunque sono proprio un’altra specie rispetto a noi creativi. A loro la cerimonia degli Award neanche interessa, motivo per cui l’hanno messa la penultima sera per evitare che andasse mezza deserta. Mi spiegava un delegato italiano che nessuno lì ha voglia di perdere una notte in più di albergo solo per vedere un premio. Chissà oh, magari hanno ragione loro.

Gli insegnamenti.

Cos’è il rischio? Possedere una sola giacca e ordinare comunque la zuppa di frutti di mare. È andata bene.
Cos’è la sicurezza? Portarsi di propria iniziativa una borsa alla convention per raccogliere tutti i gadget e le brochure. Poi finisce che nel welcome kit è incluso uno zaino e devi passare tutta la giornata con una borsa di troppo.
Qual è la morale? Che inseguire la sicurezza può essere più controproducente che accogliere il rischio.

I guru del marketing americani presentano sempre dei modelli di analisi della società e del mercato contemporanei basati su quattro o cinque parole chiave. Possiamo distinguere tre categorie di guru. Quelli scarsini mettono delle parole e basta; quelli bravi trovano tutte parole con la stessa iniziale e ti presentano “Le 5 M per capire i Millennials” (tutta colpa delle 4 P del Marketing Mix di Philip Kotler), con la costante che almeno una delle parole non c’entra un cazzo e sta lì solo perché ha l’iniziale giusta; i fuoriclasse sono quelli che trovano parole che ne costruiscono un’altra di senso compiuto, e qui la costante di parole scelte a cazzo solo per completare l’acrostico di solito raggiunge il 50%. Il tratto comune a TUTTI i guru è che entro 2 minuti e 31 secondi dall’inizio del seminario pronunceranno la parola “challenge”. Non si scappa.

Interessante il seminario “7 human behavior hacks that increase engagement and response”. Ma interessante in modo sinistro, naturalmente. Personalmente lo avrei intitolato, per restare fedele agli stilemi del direct marketing più militante, “7 cose che i consumatori non ti hanno mai detto che non sapevano di non voler farti sapere”. Si parlava di cose tipo la comunicazione dei numeri, offrire sempre più alternative per non far sentire l’acquirente costretto; oppure inserire i centesimi quando si parla di risparmi per far sembrare la cifra più grande, non inserirli quando invece si parla di prezzi per il motivo opposto; oppure ancora sfruttare l’avversione al rischio. Uno dei libri migliori che abbia mai letto si intitola “L’arte di pensare chiaro”: è scritto da un broker svizzero ed esplora tutte le falle logiche insite nel ragionamento umano. Perché il problema reale non è certo capire perché hai cliccato su quel banner invece che su quell’altro. Il problema reale è capire perché quel sabato pomeriggio hai annullato qualsiasi impegno e sei salito di corsa su quel treno per passare tre ore contate con quella persona così speciale eppure così inaccessibile, anche se razionalmente sapevi benissimo che era uno sbaglio. Ma era davvero uno sbaglio? Questo nel seminario non lo spiegavano.

Inquietante anche il seminario di Jon Iwata, il nippoamericano vicepresidente di IBM. Ha parlato di Watson, il megacomputer che ha sconfitto il campione del telequiz Jeopardy. Ma perché, dio bòno? Eravamo quelli eleganti del duello Kasparov-Deep Blue, ci siamo distratti un attimo e vai con la trashata in prima serata condotta dall’Enrico Papi statunitense. Perché dobbiamo sempre rendere tutto pop? Si chiama intelligenza artificiale proprio per evitare che gli stupidi possano capirla, no?

E i Millennials? Vuoi non parlare dei Millennials? C’era uno che diceva che lavorano meglio perché scrivono tutto col pennarello su dei grossi fogli che tengono appesi al muro. Il fatto mannaggia è che io proprio detesto scrivere, è più forte di me. Bella comunque la citazione del pilota Mario Andretti: “Se hai tutto sotto controllo, vuol dire che non stai andando abbastanza veloce.”

Penso siamo tutti d’accordo che il Nasdaq è una delle cose più noiose che esistano (seconda solo a un saggio di Odifreddi sulla non esistenza di Dio). E così il social media manager del Nasdaq ci ha spiegato la loro strategia: usare Snapchat, Periscope e tante emoji per convincere i millennials che non si tratta di un indice di borsa, bensì di una scanzonata banda di innocui cazzoni. L’ho trovato geniale.

Otis Maxwell invece regalava una copia del suo libro “Copywriting that gets results” a chiunque intervenisse durante il suo seminario. Pur di accaparrarmi una delle ultime copie ho sfoderato la mia miglior faccia da culo e gli ho fatto una domanda supercazzola che neanche mi ricordo bene, però avevo una pronuncia veramente impeccabile.

Sempre affascinante sentire Kevin Roberts, comunque: il gorilla di Cadbury l’abbiamo visto tutti 846 volte e la filosofia dei Lovemarks nell’epoca dei big data ormai scricchiola seriamente, ma il fatto che continui a dargli senza apparente fatica un senso ancora pienamente contemporaneo lo conferma senza ombra di dubbio come un fuoriclasse delle presentazioni. Anche perché indossava una camicia con un dragone disegnato sulla schiena, quindi doppia stima.

Mi ricordo la prima volta che lessi Lovemarks, fresco di laurea, sulla veranda della casa al mare nell’ormai lontana estate del 2006: ero giovane e mi sembrava plausibile che si potesse essere buoni senza rinunciare a essere fichi. Ma chissà se ho davvero smesso di pensarlo.

Il workshop conclusivo prevedeva un ospite d’eccezione: John Legend. Mi ha colpito la naturalezza con cui è stato presentato come “musicista e imprenditore”: per loro è perfettamente sensato essere entrambe le cose, in Italia qualcuno si straccerebbe le vesti gridando allo scandalo, perché l’arte non è in vendita. Come se poi la SIAE fosse una fondazione benefica. Bravissimo eh, solo che per fare due pezzi (ma proprio due, eh) ci ha imposto 25 minuti di pippone esistenziale sulla sua gioventù difficile per poi battere cassa per le sue fondazioni. Era dai tempi del dibattito Prodi-Berlusconi per le politiche del 2006 che non mi massacravo gli zebedei in quel modo.

E comunque.

Bella l’America, ma non ci vivrei.

Splendore e decadenza del soprannome romano.

Dei tanti aspetti che rendono così insopportabilmente impeccabile la romanità, quello del soprannome l’ho sempre ritenuto uno dei più notevoli. Di norma, il soprannome dovrebbe essere per definizione un aggettivo; persino la storia ci ha tramandato sequele di sovrani consacrati all’eternità da un attributo: Carlo il Calvo, Filippo il Buono, Pipino il Breve. Volendo svariare un po’, troviamo un Riccardo Cuor di Leone o un Giovanni Senza Terra, ma sono comunque epiteti assimilabili a un classico Achille Piè Veloce: una qualità comunemente riconosciuta, ma non assegnata ad personam.

A Roma no. A Roma è tutto diverso. A Roma è tutto più grande. A Roma, il soprannome è per definizione un sostantivo. Un sostantivo per giunta preceduto dal fondamentale articolo “Er”: in questo modo la qualità non è più solo attribuita in concessione, ma viene assolutizzata. Chi riceve il soprannome ne diventa il detentore esclusivo, l’unico interprete riconosciuto, autorizzato e accreditato. Il massimo e più autorevole esponente.

Esempio. Un vecchio ragioniere amico di famiglia, affabile e cordialissimo ma noto per la propria proverbiale lentezza operativa, è ormai comunemente identificato come Er Moviola. Capite la potenza? La grandezza? L’incisività? A Lumezzane o a Porto Sant’Elpidio sarebbe stato semplicemente il Lento. Ma lui non è il Lento. Lui è Er Moviola.

Altro esempio. Un mio carissimo amico, chitarrista sopraffino, ama talvolta definirsi Er Metafora: ciò deriva dal fatto che quando racconta fatti insoliti o divertenti dispone di un talento sontuoso nell’arricchire la narrazione con similitudini complesse ed elaborate ma nondimeno sempre pregnanti ed efficaci. Una volta ci raccontava accorato di due amici che malgrado gli sforzi faticavano a lavorare insieme a causa del carattere molto diverso, flessibile a accomodante l’uno, pignolo e maniacale il secondo: “Considera che Tizio fosse per lui risolverebbe il conflitto israelo-palestinese in dieci minuti; Caio invece lascerebbe il foglio con le istruzioni pure alla donna delle pulizie.” Insomma, è proprio vero che ventisette parole valgono più di mille parole.

Ma come si sono evoluti i soprannomi romani negli anni? Ricordo che una decina di anni fa, in pieno boom Costantino&Daniele, incontrai sul treno Roma-Lido (com’è noto, tra i principali ritrovi dell’intellighenzia letteraria capitolina), due simpatici coattelli abbigliati in stile “Troppo belli”: jeans strappicchiati, sneakers, t-shirt pseudofashion, giacchetta yeah.

(…che poi, ora che ci penso, è all’incirca il modo in cui vado io in ufficio oggi, ma vabbè, questo sarebbe un altro discorso.)

La loro fu una conversazione leggendaria che serbo scolpita nell’ipotalamo assieme alle altre sequenze indispensabili per la mia sopravvivenza emotiva, come il codice fiscale, la serie di Fibonacci, la tracklist di The Dark Side Of The Moon e la lista dei rigoristi di Italia-Francia. In pratica due sere prima c’era stata questa clamorosa, incredibile rimpatriata dei vecchi tempi, e si era organizzata una bella partita di calcetto come si conviene per celebrare al meglio l’evento.

Erano venuti proprio tutti, ma tutti tutti eh: Er Crepa, Er Tacca, Er Frappa, Er Mefisto; e insomma, credeteci o no, a fine serata li aveva raggiunti pure Er Mezza Fella. Sì, proprio lui! La serata, e il racconto, erano poi proseguiti con la narrazione delle spassosissime peripezie der Mefisto ad Amsterdam: dopo due giorni aveva già finito i soldi e si arrangiava dormendo per strada e scippando le vecchie. Che matto!

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Un’immagine di repertorio del Frappa.

Va detto che dopo dieci anni ancora non c’è unanimità sul significato preciso di tutti i soprannomi, malgrado abbia interpellato, in momenti diversi, esperti provenienti da diversi municipi, e financo dai comuni limitrofi. Sul Frappa c’è poco da dire, ovviamente: era sicuramente uno col naso grosso (ovvero “la nasca” o appunto “la frappa”); sul Crepa la teoria ormai comunemente accettata è che fosse uno dedito a piccole ruberie veniali, o magari uno che non restituiva i soldi ricevuti in prestito (uno che appunto “si crepava” la roba); Er Mefisto è stato identificato da molti antropologi come uno che stava a rota colle miccette (Mefisto è una marca nota di petardi economici), ma una corrente minoritaria ipotizza che potesse essere provvisto di un talento notevole e apprezzato nell’arte della flatulenza; chiaro il significato di Mezza Fella (il nome volgare della “mezza piotta”, ossia della banconota da cinquanta euro), ma non il perché caratterizzasse il suo detentore: forse un riferimento a un prestito in qualche modo passato alla storia, oppure il ricordo di un ingente acquisto di fumo? Infine, piena e totale oscurità sul Tacca: forse qualcuno che amava tenere il conto delle proprie copule sull’armadio? Nessuno lo sa con certezza. *
Di sicuro, senza neppure averla vista, la compagnia si presentava comunque variegata, intrigante, a suo modo pacatamente gagliarda.

Un mesetto fa invece tornavo da un caffè con un’amica (cioè, non era esattamente un’amica ma anche questo sarebbe un altro discorso…) ed ero per mia sfortuna su un autobus, con questi due gruppetti di ragazzini tra medie e inizio liceo. In mezzo, due ragazze più o meno carine, e tanto basta per scatenare il classico contrappunto protomachista a base di “Mbè, che cazzo te guardi?”, oltremodo spassoso vista l’età e la statura dei contendenti. A un certo punto uno del gruppetto di coda si alza ed avanza traballante verso il centro, con fare secondo lui spavaldo, incitato dai suoi drughi: “Boooo, Er Bestia s’è incazzato!”. Lo chiamavano proprio così: Er Bestia. Piccolo particolare però: Er Bestia era un cazzettino alto sì e no un metro e quarantatré, stabile come lo stipendio della stagista di un call center e robusto come l’erezione del decano della Corte Costituzionale. Poteva bastare una pacca sulla spalla un po’ troppo convinta per mandarlo in rianimazione. Eppure per i suoi amici lui era Er Bestia.

Di chi è la responsabilità di una denominazione così rovinosamente overpromising, come diciamo noi pubblicitari? Di Romanzo Criminale, ovvio. Non può essere diversamente se nell’ultimo lustro il soprannome romano si è incattivito e intrucidito in modo sistematico, perdendo però tragicamente di credibilità. Siamo passati dalla sorniona faciloneria der Crepa, bono e caro anche se poi magari te dà la sòla, alla ridicola isteria der Bestia, il campione cittadino dell’autosopravvalutazione. E allora mi chiedo: è questa la città che vogliamo lasciare ai giovani? Sono questi i soprannomi che vogliamo consegnare ai nostri figli? Perché se le cose rimangono così, e lo dico a malincuore, io a Roma non ci torno.

* Le ricerche si sono improvvisamente ridestate proprio grazie a questo post. Condivido qui per pienezza informativa il prezioso contributo tempestivamente inviato dal Prof. Alessandro Zuccherofino: Il problema qui è che i soprannomi romani dipendono tanto da momenti “storici”, in cui commetti qualcosa per cui sarai bollato a vita da un determinato gruppo di amici, che da tue caratteristiche ontologiche. Al che, il famigerato “Tacca” potrebbe essere sia uno a cui il cellulare non prende mai (le tacche a Roma sono le barre che indicano la qualità della linea ricevuta dal cellulare) oppure un tizio parsimonioso che a forza di essere definito taccagno diviene “Er Tacca”. Non possiamo inoltre escludere il fatto che facesse semplicemente Tacca di cognome. Senza la spiegazione degli amici, è veramente impossibile da capire.”

Fenomenologia dell’annuncio di lavoro in sette punti.

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1. Dimensione

L’agenzia è internazionale.
“Il solito gigante che vuole spolpare i polli. E non si accorgono che stanno morendo. Ipocriti. Io sono anni che non lavoro più con i network, se aspettano che scrivo stanno freschi. Mi fate ridere.”

L’agenzia è indipendente.
“Ma chi so’ questi? Ma chi li conosce? Ormai basta mettere su un sitarello e si danno tutti le arie da grandi direttori creativi. Ridicoli!”

 

2. Esperienza

Cercano un senior.
“L’Italia è un paese vecchio, morto, finito. Per noi giovani non resta che emigrare. Grazie, Renzi!”

Cercano un giovane.
“Ennesima dimostrazione che a 38 anni ormai per loro sei vecchio: hai lavorato vent’anni e come premio ti danno un calcio in culo!”

 

3. Inquadramento

Vogliono un freelance.
“I soliti paraculi, guarda ormai non mi stupisco più di niente. Questa è l’Italia, siamo marci dentro!”

Vogliono assumere.
“Fantastico! Prima ti costringono ad aprire la partita IVA, poi ti prendono per il culo. Grazie Fornero!”

 

4. Ruolo

Cercano una posizione specifica.
“E certo, pensano di trovare un candidato fatto a tavolino. Evidentemente sono talmente dilettanti che non sanno che il valore del professionista non sta in un titolo o una sigla, ma nella sua visione delle cose. Ma tanto a loro che gli frega?”

Cercano diverse posizioni.
“Sì, e che stiamo al mercato? Chi offre di più? Roba da matti, non sanno neanche loro di cosa hanno bisogno!”

 

5. Remunerazione

Lo stipendio non è indicato.
“Fantastico. No dico, complimenti. Venti righe di requisiti, e non si sa neppure quanto gli darebbero a ‘sto Superman, ammesso sempre che lo trovino. Molto professionale, proprio.”

Lo stipendio è indicato.
“Cos’è, un fucile puntato? Un ricatto? Prendere o lasciare? Certe cose si dovrebbero discutere a voce quando ti sei fatto un’idea della persona che hai davanti. Molto professionale, proprio.”

 

6. Orario

L’impegno è full-time.
“Capito, cercano uno schiavo. E se uno ha figli o altri cavoli si attacca. Solita storia.”

L’impegno è part-time.
“Comodi loro. Spilorci del cazzo. E io come campo?”

 

7. Sede

La sede di lavoro è Milano.
“E ti pareva, sempre a Milano ‘ste cose. La solita mafia.”

La sede di lavoro è Roma.
“E ti pareva, sempre a Roma ‘ste cose. La solita mafia.”

 

Le Grandi Interviste: Lele Panzeri e il fantastico viaggio di Ubu

BoifavaDopo la leggendaria intervista ad Alfredo Accatino, abbiamo oggi l’incommensurabile onore di ospitare su queste colonne Lele Panzeri (ritratto qui a fianco nelle vesti di Padre Boifava), socio e direttore creativo de Le Balene, nonché fresco autore, per i tipi digitali di Blonk, della sua seconda fatica letteraria intitolata “Il fantastico viaggio di Ubu”.

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Quando le ho proposto questa intervista ha specificato testualmente “ACCETTO L’INTERVISTA PURCHÉ SIA LUNGA, NOIOSA E BANALE, E NON CONTENGA LA PAROLA WEB”: il fatto che citando la domanda io abbia effettivamente infranto l’ultimo punto costituirà un problema insormontabile?

Sì.

Di solito scrivere un libro è il grande sogno nel cassetto di ogni copywriter. Lei però è un art director: c’è forse una sfida in atto con Lorenzo Marini?

Sì.

Gli anni dello “spleen” evocati nel libro corrispondono in larga misura al secondo governo Prodi: solo una coincidenza?

Sì.

Perché Ubu si chiama Ubu? E come si chiamerebbe Ubu se non si chiamasse Ubu?

Sì.

Una barca è probabilmente l’unico posto dove fare una cazzata spesso è un’operazione necessaria, se non indispensabile. Cosa ci insegna tutto ciò?

Sì.

Nella seconda parte del libro cita il Sapitore Universale tra i suoi strumenti di bordo promettendo di spiegare in seguito di cosa si tratta. Poi però non lo fa, provocando nel lettore un misto di rabbia, frustrazione e desolazione paragonabile a ciò che si proverebbe se l’Italia perdesse la finale dei mondiali con la Grecia per colpa di un rigore sbagliato da Matteo Renzi. Insomma, cos’è il Sapitore Universale e a cosa serve?

Sì.

Lei è noto prima di tutto come art director, eppure ha firmato alcuni titoli memorabili. È una conferma implicita della superiorità antropologica degli art sui copy, motivo per cui entro pochi anni i primi inizieranno a cibarsi delle carcasse dei secondi fino a ridurli alla totale estinzione?

Sì.

Si può dire che un tempo si diventava pubblicitari per caso, mentre oggi si diventa pubblicitari per sbaglio?

Sì.

Lei è celebre e ammirato anche per via della sua folta barba. Ha mai provato invidia per Michelangelo Tagliaferri?

Sì.

Per concludere, si dia una risposta e poi si faccia una domanda.

RISPOSTA: Sì.

DOMANDA: Panzeri, ci parli con franchezza che qui siamo tutti sgamati e se dice una cazzata la becchiamo subito, cosa che farebbe precipitare a zero la stima che riponiamo in lei. Tenga anche conto del fatto che molte persone che frequentano questo blog sono giovani e disoccupati mentre lei, a quanto ci risulta, è vecchio e occupatissimo. Consideri anche il fatto che i nostri sodali potrebbero perfino credere alle sue parole (quali esse siano) e modificare radicalmente la propria prospettiva di vita seguendo i suoi consigli. Sappiamo che nelle agenzie che ha frequentato, fondato, coltivato e distrutto lei ha contribuito notevolmente ad allevare decine, se non centinaia di giovani creativi che oggi sono ai posti di comando nelle grandi multinazionali della comunicazione e che essi percepiscono stipendi e bonus incredibili coi quali potrebbero facilmente acquisire la sua attuale struttura e darle fuoco per il puro gusto di farlo. Siamo inoltre consapevoli del fatto che lei, non pago dei suoi numerosi successi nel campo della comunicazione ha voluto intraprendere, ultimamente, la carriera di scrittore, senza peraltro accorgersi che le sue opere sono costellate di errori di grammatica, di sintassi, di punteggiatura e di stampa, quindi le chiediamo cortesemente di non fare il fenomeno come al solito spinto dalla sua irrefrenabile ambizione di gareggiare con Lorenzo Marini e Annamaria Testa a chi è più narcisista ed egocentrico.

Ciò detto, ecco la domanda:
Pensa che le secrezioni vaginali possano essere efficaci contro la formazione di ruggine nei materiali ferrosi?

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Insomma, non resta altro che acquistare l’ebook in massa augurandoci che i copiosi proventi delle vendite invoglino Lele Panzeri a mettere mano al seguito, svelando finalmente l’origine, la funzione e i prodigiosi benefici del Sapitore Universale.

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Cinque business da tenere d’occhio nel 2014.

Che sia o meno l’anno della tanto agognata ripresa, il 2014 appena cominciato si presenta ricco di opportunità imprenditoriali, a patto di saperle cogliere nel modo giusto. Ecco il profilo  di cinque imprese, diversissime fra loro, che hanno saputo coniugare intuizione e innovazione: di sicuro ne sentiremo parlare ancora a lungo.

 

Il treno è servito.

Logo_EATALOUltimo risultato dell’indefessa inventiva imprenditoriale di Oscar Farinetti, Eatalo è il frutto  della partnership ormai quasi simbiotica tra Eataly e NTV, il consorzio ferroviario titolare del brand Italo. Come spiega lo stesso patron “Eatalo è un meraviglioso esempio di quello che può nascere quando le eccellenze di un paese fanno sistema. Abbiamo unito il comfort di un treno all’avanguardia con l’impeccabilità di un ristorante di primo livello, per realizzare qualcosa di unico al mondo: un bistrot su rotaia”. I nuovi treni Eatalo saranno attivi inizialmente sulle tratte Roma-Milano e Bologna-Venezia. Caratteristica distintiva, l’ordine delle portate che cambia in base alla tratta percorsa, riproponendo gastronomicamente la successione delle città attraversate. Così, se sul Roma-Milano si passa dal pecorino con le fave (Roma) alla ribollita (Firenze), al ragù (Bologna) fino alla torta meneghina (Milano), sul Venezia-Bologna potremo degustare moeche fritte (Venezia), proseguire con una gallina imbriaga (Padova) e chiudere in bellezza con una deliziosa pinza (Bologna). I convogli Eatalo entreranno in servizio dal 17 Marzo, ma è già possibile prenotare i biglietti sul sito della compagnia.

 

Famolo strano.

logo_GROUPORNAutentico fenomeno del 2013 nella natìa Germania, Grouporn si appresta a fare il suo ingresso nel Belpaese, anche se in versione “censurata”. La popolare piattaforma di crowdbuying, fondata nel 2011 a Berlino da Hans Augenthaler, programmatore, e Konrad-Ulrich Doppelgänger, sessuologo e giornalista, è legata infatti a doppio filo al mercato della prostituzione, che in Germania costituisce la terza industria nazionale. “L’idea è semplicissima”, spiega Augenthaler, “abbiamo applicato la meccanica della scontistica di gruppo al mercato del sesso, un settore che tira molto ma che in ogni caso ha risentito inevitabilmente della crisi”. Grazie a Grouporn è dunque possibile acquistare in gruppo una prestazione sessuale, risparmiando notevolmente sul prezzo originale. “Naturalmente acquisto di gruppo non significa prestazione di gruppo”, spiega Doppelgänger, “ognuno riscuote per conto suo. Molti ci criticano, io credo semplicemente che Grouporn sia una cosa molto democratica: vogliamo garantire a ogni tedesco il diritto a ricevere una fellatio spendendo il meno possibile”. Ma cosa farà Grouporn nel nostro paese, dove notoriamente la prostituzione è vietata? Semplicemente, punterà sui sex toys, che da noi vanno forte. Ma in molti si augurano che l’arrivo di Grouporn in Italia possa dare un contributo importante verso la legalizzazione del sesso a pagamento.

 

La mia banca è diffidente.

logo_banca_impopolareIn un momento di forte crisi, economica e d’immagine, del settore bancario, spicca la nascita di Banca Impopolare, il nuovo consorzio nato dalla fusione di cinque piccole banche del Nord Est. “La nostra è una scommessa forte”, racconta Gelindo Bruseghin, responsabile marketing del gruppo, “la gente ormai odia le banche, e noi abbiamo deciso di ricambiare. Ci è sembrato il modo più onesto per impostare la nostra politica di servizi, i clienti stanno iniziando a capire e devo dire che apprezzano”. Tra i servizi più innovativi c’è la carta di scredito, uno strumento con cui gli acquirenti possono a loro piacimento “screditare”, cioè segnalare negativamente, gli esercenti a cui Banca Impopolare ha concesso un prestito. Più il livello di scredito aumenta, più viene innalzato l’interesse passivo sulla somma da restituire. “Ci piace molto l’idea di mettere le persone le une contro le altre”, chiosa Bruseghin, “francamente sono convinto che l’epoca delle banche popolari sia destinata a finire. Anzi, sia già finita”.

 

Una pizza da soli.

Gustare una fetta di pizza appena sfornata mentre si va in taxi a un appuntamento: un sogno? Non per chi usa Speezza, il rivoluzionario servizio di food-on-the-go che sta letteralmente facendo impazzire i newyorkesi. Il meccanismo è molto semplice: si scarica l’app sul proprio smartphone, ci si registra e si prenota un taxi, indicando orario, destinazione e pizza preferita. All’ora stabilita, il taxi passerà a prendervi e nell’istante esatto in cui entrerete l’autista sfornerà la vostra pizza dall’apposito fornetto a legna collocato sul sedile del passeggero. Nata nella Primavera 2013, la startup (il cui nome è un riuscito gioco di parole tra “speed”, veloce, e “pizza”) si è rivelata ben presto un autentico fenomeno commerciale nella Big Apple, capace di rastrellare 37.000 utenti attivi e un fatturato di oltre 1,5 milioni di dollari in soli otto mesi. Il fondatore, il ventiseienne Steven Quagliarulo, bisnonno di Casoria e master in Digital Business a Palo Alto, sembra avere le idee fin troppo chiare: “Speezza ha tutte le carte in regola per essere una startup di successo: ha un nome con due vocali uguali attaccate e offre un servizio assolutamente superfluo che la gente usa semplicemente perché si sente molto figa nel farlo”. Un successo vertiginoso che ha portato Speezza ad aprire a raffica in altre dodici città (Chicago, Los Angeles, San Francisco, Las Vegas, Boston, Miami, Seattle, Vancouver, e prossimamente Tokyo, Singapore, Londra e Berlino) e a rifiutare una clamorosa offerta di acquisizione da Pizza Hut (oltre 3 miliardi di dollari, secondo alcuni rumours). Perché il vero sogno di Quagliarulo non sono i soldi: “Voglio portare Speezza in Italia, il paese del mio bisnonno. Glielo devo”. Insomma, dopo Uber, si profila all’orizzonte una nuova grana per i tassisti italiani.

 

Quando il denaro frutta.

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Gonzalo Chupacabras in un momento felice.

Dimenticate i Bitcoin. Cosa succederebbe se, improvvisamente, potessimo usare come valuta qualsiasi cosa? È la domanda che si è posto cinque anni fa Gonzalo Chupacabras, che all’epoca aveva quindici anni e viveva in un sobborgo di Mexico City. “Avevo bisogno di soldi e così ho pensato di raccogliere un po’ di pinoli, che da queste parti sono abbastanza facili da trovare. All’inizio vendevo semplicemente i pinoli per ottenere soldi, poi con alcuni amici abbiamo iniziato a usarli come una vera e propria valuta per i nostri scambi. Piano piano la cosa ha preso piede, ed è nato Pynut (contrazione di “pine nut”, pinolo, ndr), un sito dove gestivamo gli scambi e reclutavamo nuove persone interessate”. Col tempo la piattaforma ha iniziato ad accettare come valute anche altri oggetti, banane, mirtilli, pistacchi, persino sassolini o tappi di dentifricio, il cui tasso di cambio interno è regolato quotidianamente da un algoritmo top secret elaborato dallo stesso Chupacabras. Naturalmente per le transazioni a distanza è possibile utilizzare beni immateriali, come mp3 o immagini hard, il che ha permesso a Pynut di allargare enormemente la base di utenti attivi, 14 milioni secondo le ultime stime, sparsi in 27 paesi diversi, dall’Australia alla Norvegia.“ È uno strumento facile da usare, grazie ai tassi di cambio semplici e intuitivi: ad esempio, una foto zozza attualmente corrisponde a 0,27 pinoli, dunque se voglio comprare qualcosa che costa 27 pinoli dovrò usare 100 foto di tette e culi, che naturalmente dovranno essere tutte diverse fra loro”. Non mancano le critiche: “Ci hanno accusato di essere speculatori, di evadere il fisco, di fare commerci illegali. Abbiamo solo creato un’economia alternativa, più equa e democratica, in cui nessuno si arricchisce sulle spalle di qualcun altro”. Anche se, a quanto sembra, la fortuna personale di Chupacabras sarebbe lievitata enormemente negli ultimi anni: secondo le indiscrezioni, 23 milioni di dollari in pinoli e frutti di bosco (su cui, è bene ricordarlo, non possono essere applicate imposte) più gli introiti pubblicitari sulla piattaforma, stimati in 12-13 milioni annui. Insomma, qualche dubbio sulla reale democraticità dell’iniziativa rimane, ma come dicono negli USA, dove Chupacabras ormai risiede, “business is business”.

 

Eurobestiario #3

Gran finale. L’ultimo giorno sviluppa in grande stile il tema portante del festival, che non è “arrabbattarsi con stile” ma “creative bravery”, anche se i punti di contatto tra i due concetti alla fine sono molteplici. Almeno tre volte si cita l’esempio del manager della Decca Records che respinse i Beatles: come dire che le grandi idee il più delle volte al principio paiono folli. Anche se a volte scelte poco avvedute possono risultare controproducenti: basti pensare al nome del ristorante del Cinema São Jorge, sede dell’evento.

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La mattina scorre senza troppe emozioni, ma risolve il mistero del gorilla batterista: si tratta di un commercial di Cadbury del 2007.

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Il pomeriggio finalmente si rivela denso di innovazione: merito in primis di Media Monks che organizza una presentazione interattiva su due schermi: quello classico alle spalle dei relatori, e lo smartphone di ogni partecipante, con contenuti extra di vario genere.

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Una strada sicuramente da sviluppare. L’animale del giorno è di nuovo un cane: uno dei Driving Dogs di Mini. Dicevamo della follia, no?

La penultima sessione, ad opera di Zenith Optimedia, è forse quella chiave, perché si addentra là dove tutti si trincerano dietro al rassicurante “We have no idea”: il futuro. Con la giusta dose di azzardo, la presentazione propone sei grandi trend di consumo per i prossimi 25 anni.

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L’i-Street è la strada del futuro, dove si va nei negozi di stampa 3D per avere un duplicato della chiave dell’auto o di un pezzo guasto di un giocattolo.
I mercati in espansione non riguardano l’Europa, esclusa la solita Londra: in evidenza i già noti BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) e in subordine i CIVETS (Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e Sudafrica), questi ultimi ancora una scommessa.
Il consumo collettivo e responsabile prevede l’enfatizzarsi di diversi fenomeni già in atto (sostenibilità, alimentazione consapevole, km zero) in modo più organico e organizzato.
Il concetto di Social Cooperative vede poi i consumatori al centro del business model, con il brand nel ruolo di collaboratore, non più di fornitore.
L’internet delle cose è il concetto forse più affascinante: ogni oggetto è in rete, comunica con gli altri e anticipa i problemi prima che si verifichino: i supermercati forniranno gratuitamente ai clienti un frigo che ordina in automatico i nuovi prodotti prima che si esauriscano. All’estremo del fantascientifico c’è la pillola della salute, in grado di prevenire i malesseri prima che si verifichino. È la fine dell’imprevisto, della serendipità.
Infine, la democratizzazione della creazione di contenuti: fenomeno già in atto, lascia intendere che in futuro brand e consumatori collaboreranno in modo sempre più stretto.

L’ultimo seminario è dell’artista gallese Pure Evil, di cui con la consueta nonchalance riesco ad arraffare una delle opere gentilmente donate al pubblico, perfettamente a misura di trolley.

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Finalmente, arriva il momento dei premi. Prima una doverosa standing ovation per Nelson Mandela.

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L’Italia porta a casa un paio di ori in radio e PR, niente male, anche se il dominio tedesco e scandinavo è sempre schiacciante. Presidente della giuria principale è Andrea Stillacci, che sostituisce il defezionario David Lubars.
Qui ho raccolto una selezione assolutamente arbitraria di lavori premiati.
Daily Abuse
Second Life Apps
Scorecleaner Notes
Gap In The Market
Facebook 1914
Vodafone Digital Library
Seven Days Of Rain In Barcelona
La lista completa la trovate qui.

All’uscita dalla premiazione c’erano due file. Una era quella dei pubblicitari che salivano sui pullman che li portavano in discoteca. L’altra era quella dei poveri di Lisbona che attendevano un pasto caldo dai volontari.
Io sono andato a dormire.

Eurobestiario #2

Giornata più interessante. Si comincia con la Crispin Porter + Bogusky, che per illustrare il suo metodo creativo cita addirittura “Think Small” e poi rispolvera il celebre “Whopper Sacrifice”.

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L’idea creativa, secondo il loro modello, giace nell’intersezione tra la verità del brand e la verità del consumatore, probabilmente un modo meno criptico per definire l’insight.

Ci sono temi che ritornano più volte durante la giornata: Donald Draper, citato almeno tre volte per sottolineare la necessità di non accettare compromessi (compresa la scena memorabile in cui caccia i clienti dall’agenzia); l’importanza delle emozioni, che detto così pare la solita banalità, e in effetti è difficile dire qualcosa di davvero nuovo sul tema; e naturalmente “The Epic Split”, mostrato in tre presentazioni diverse, compresa quella dell’agenzia che l’ha realizzata, la Forsman & Bodenfors di Stoccolma, che ci tiene a ribadire con orgoglio che non hanno in organico direttori creativi ma solo copywriter e art director, in ossequio probabilmente al modello socialdemocratico scandinavo. E a quanto pare, funziona bene (anche se qualcuno avrà dovuto approvarla, sta campagna).

Nel frattempo, in mezzo alle (pochissime) riviste in omaggio, spunta un bel mazzo di copie del mitico Bill. Che vanno a ruba.

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Il pomeriggio è più visionario. New Moment, agenzia macedone, presenta la case history di un tempio di preghiera multireligioso per favorire l’integrazione culturale ancora complessa nella repubblica balcanica: sul palco salgono un sacerdote ortodosso e un musulmano che pregano contemporaneamente, in un suggestivo incastro di melodie.

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Brandopus, poi, invita a ridurre il rischio di comunicare in modo sbagliato evitando di chiedere pareri ai consumatori: l’assunto, provocatorio ma neanche troppo, è che le persone non dicono quello che pensano, bensì quello che credono di pensare. Il che fa una bella differenza, anche se non risolve troppo il problema.

Finalmente arriva il momento più atteso: 180 Amsterdam ospita il mitico Luis Figo in un dibattito sull’importanza del displacement, il percorso cioè di quei numerosi  creativi, da Joni Ive a Woody Allen, che hanno ottenuto grandi risultati lavorando in paesi diversi dal proprio. Ovviamente, essendo Figo un portoghese che ha giocato per lo più in Spagna e in Italia, il tutto aveva senso. A parte pronosticare Brasile, Spagna e Portogallo come favorite per il mondiale, non è che abbia detto queste grandi cose: ma del resto è uomo di piede, non di parole. Io lo ricorderò sempre per questo gol all’Inghilterra che nella torrida estate del 2000 mi fece fare uno zompo sulla sedia.

Lo confesso: l’ho sempre amato alla follia. Come calciatore, intendo. Classe, potenza, eleganza, fair play: del resto, con un nome così…

Finita la presentazione l’ho atteso mezzora speranzoso nel foyer per un autografo, ma non si è fatto vedere. E vabbè, sti cazzi.

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Dopo le aragoste nel braccio della morte e il cane perculato, l’animale di oggi è il gorilla batterista della scenografia: assieme alla sua amica donna lampadina che si trucca, sembra il modo perfetto per confermare che nessuno in questo momento sembra avere un’idea chiara di cosa sta succedendo nel mondo della comunicazione; che è il concetto con cui si chiudono due presentazioni su tre.

Eurobestiario #1

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Finalmente si comincia. Un grazioso furgoncino-libreria davanti all’ingresso del festival lascia presagire quello che sarà un po’ il filo conduttore degli interventi delle giornata: arrabbattarsi con stile. Si inizia con una riflessione sui cosiddetti “millennials”, i giovini di inizio millennio, in teoria miei coetanei, che hanno realizzato una sorta di decrescita felice, perseguendo uno stile di vita meno ambizioso e apparentemente più a misura d’uomo. Archiviate le isterie carrieristiche yuppistiche, ci si licenzia dalla banca per diventare fiorai a domicilio o dall’agenzia pubblicitaria per sfornare toast. Il resto viene di conseguenza: si passa dalle biciclette prodotte con ex componenti automobilistiche a dispositivi impiantati nell’asfalto per produrre energia dai passi dei pedoni.

L’apoteosi giunge con la celebrazione del celeberrimo “caffè sospeso” napoletano, durante un seminario intitolato senza troppi giri di parole “Creativity In Crisis”, che racconta vari espedienti insoliti per fronteggiare le ristrettezze nei paesi latini, inclusi anche i Gruppi di Acquisto Solidale.

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Curiosamente, questa del caffè sospeso è un’usanza che esiste da decenni, eppure il mondo della comunicazione lo scopre solo oggi: ma dubito che negli anni ’80 qualcuno avrebbe pensato di parlarne a un festival (anche se non posso saperlo con certezza perché in quel periodo ero troppo impegnato a impregnare pannolini).

Per il resto il programma di questo primo giorno non appare eccessivamente esaltante. Va osservato che, presentazione dopo presentazione, l’advertising vero e proprio sembra fisiologicamente perdere sempre più spazio a favore di invenzioni che rasentano la follia e soluzioni di marketing estremamente innovative sotto il profilo tecnologico, tipo la stampa 3D della chiave di casa se te la perdi. È un evento in cui smanettoni e startupper si sentirebbero certamente a loro agio, anche se con tutta probabilità smanettoni e startupper ne ignorano l’esistenza, il che è un vero peccato.

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Il concetto a mio avviso più interessante di questa prima giornata è questo “Augmented Humanity”, che trovo molto più completo, potente e rassicurante del solito “Sustainable Technology”. Per il resto, inizio a non poterne più di video anfetaminici con otto frame al secondo che provano a stupire raccontando che ogni istante 8.000 persone condividono un tramezzino su Instagram, 500.000 postano un tweet sarcastico e non so quanti altri si lasciano su Facebook: ormai abbiamo capito, siamo tanti, abbiamo tutti dei telefoni potentissimi e abbiamo difficoltà a trovare lavoro per cui lo usiamo per cazzeggiare. Insomma, un orgiastico delirio statistico da social media che ambisce a risuonare rivoluzionario ma è già diventato un cliché.

La giornata si chiude con il tradizionale party all’Hard Rock Cafè dove, approfittando della famigerata flying dinner, ho mangiato 473 hamburger nani e due fette di brownie dense come zolle di terriccio del prato di San Siro.

La bestia del giorno è il cane protagonista di questo filmato virale che si è beccato quasi 150 milioni di visualizzazioni: un buon esempio di quei blockbuster artigianali con(tro) cui la comunicazione di marca si trova spesso a competere nell’angusta arena dei social media.

Eurobestiario #0

eurobestiario
Poter ascoltare delle persone intelligenti è diventato un evento così raro di questi tempi che spesso si è disposti anche a pagare per farlo. Questo è il motivo per cui, da tre anni mi organizzo per andare all’Eurobest, l’unico evento di un certo livello del settore a cui il mio conto corrente mi autorizza a prendere parte (aiutato anche dall’illusorio senso di ricchezza che sto sperimentando in questi giorni poiché in tre settimane mi hanno finalmente pagato sei mesi di lavori).

Curiosamente, da tre anni a questa parte il festival si è stabilito a Lisbona, che è oggettivamente l’ultima città che chiunque prenderebbe in considerazione per un evento del genere: grossomodo, organizzare un festival di advertising a Lisbona corrisponde a organizzare una festa in maschera a casa di uno che è stato appena lasciato dalla ragazza. Troppo introversa e tormentata per accogliere adeguatamente le effimere velleità pubblicitarie, Lisbona giace da sempre in un angolino in basso a sinistra dell’Europa: come il ragazzino secchione che alla gita delle medie viene relegato nei posti davanti del pullman e si fa tutto il viaggio girato a guardare i compagni che gozzovigliano ai posti in fondo, così Lisbona sembra invidiare sospirando Roma e Barcellona che fanno festini a bordo Mediterraneo, Parigi che si atteggia a gran signora, Londra che è la capitale praticamente di tutto (tranne la cucina, ma dicono che si stia attrezzando).

A ben guardare, la storia di Lisbona è un campionario di sfighe incredibilmente vasto: dal terremoto che nel 1755 rase al suolo le inestimabili vestigia architettoniche dell’epoca d’oro mercantile, all’anacronistico quarantennio di dittatura salazariana che rallentò a dismisura lo sviluppo economico lusitano, al più prosaico suicidio sportivo del 2004, quando una delle più forti nazionali portoghesi di tutti i tempi riuscì a perdere l’Europeo di calcio, davanti al proprio pubblico, nientedimeno che con la Grecia (!). Insomma, questa città sembra avere un contratto a tempo indeterminato con la jella, e non può essere un caso che proprio a Lisbona sia nato e si sia sviluppato l’unico genere musicale interamente dedicato al rodimento di culo: il fado*.

*da Wikipedia: Il nome deriva dal latino fatum (destino) in quanto essa si ispira al tipico sentimento portoghese della saudade e racconta temi di emigrazione, di lontananza, di separazione, dolore, sofferenza.

C’è dunque un nesso tra pubblicità e sfiga? Ci sarebbero ottimi e numerosi motivi per rispondere di sì, ma la realtà è che, più probabilmente, nessun’altra capitale europea permetterebbe di spendere così poco: una cosa del genere a Stoccolma costerebbe il quadruplo. Che dire ancora? Il programma dell’anno scorso resta praticamente insuperabile, con John Hegarty presidente di giuria e David Droga autore del workshop conclusivo. Quest’anno il megapresidente è David Lubars, mentre l’ospite più atteso è il mitico Luis Figo, proprio lui, l’ex fuoriclasse di Barcellona, Real Madrid e Inter, nonché sfortunato capitano della finale del 2004, che sarà protagonista del workshop di 180 Amsterdam: forse il vero momento clou, in cui le due grandi protagoniste, pubblicità e sfiga, si guarderanno finalmente negli occhi. Vi farò sapere.

Ah dimenticavo: le aragoste. Mi hanno tenuto compagnia stasera mentre cenavo, ma suppongo che per quando rientrerò saranno già passate a miglior vita. Sempre per quel discorso della sfiga…

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