Quando partite per una traversata intercontinentale, ricordatevi sempre che fare il copycheck è molto importante. Soprattutto quando compilate l’ESTA. Il mio art non l’ha fatto e ha dovuto pagare subito 42,00 € tra spese e commissioni per rifarlo.
L’accoglienza nel nuovo mondo incute un po’ di timore. Alla dogana il nero incazzato nero di default mi ha chiesto che lavoro faccio: io ho mentito e ho risposto “I work in advertising”, anziché “I tell lies on behalf of companies”.
Il momento più emozionante dell’arrivo è arrivato comunque subito dopo, quando abbiamo dovuto ripescare dopo 13 ore di trasvolata un mazzo di chiavi seppellito in una fioriera di Manhattan. Senza dubbio la miglior risposta alla domanda “Perché scegliere Airbnb invece dell’hotel?”.
In generale gli americani amano gli ampi spazi, e provano piacere nel percorrerli facendo dispendio di più energia possibile. Devono sprecare, sennò si sentono europei, e questo li fa star male. Manhattan è un budello, sarebbe il posto ideale per le city car, eppure tutti si ostinano a guidare macchine lunghe e grosse. Avremo avvistato giusto un paio di Fiat (ovviamente Abarth). Non stupisce che i treni siano di livello mediocre. Per spostarci da New York a Boston (circa 300 km) abbiamo impiegato più di quattro ore, accumulando oltre mezzora di ritardo. In Italia avremmo impiegato la metà, grazie alla nostra meravigliosa TAV. Lì la TAV non sanno neanche cosa sia, e un treno che va a 300 all’ora gli pare inutile fantascienza. Semplicemente, dei treni non gli importa nulla: New York-Boston si fa in auto, o meglio ancora, in aereo. Se non spargi monossido di carbonio, non sei nessuno.
A Boston invece glien’è fregato cazzi ai controlli di sicurezza di dove volavamo, moduli e cavoli vari. Erano soprattutto piacevolmente ansiosi di mandarci fuori dalle balle il prima possibile: in questo gli americani sono impagabili (ben più ansiosi invece a Londra dove non si fidano dei controlli di sicurezza fatti dagli altri e nel dubbio li rifanno a tutti i passeggeri in transito). Unica accortezza, la doccia di raggi x totale con le mani alzate. Che ci vuoi fare, sono fatti così.
New York.
Così a prima vista, New York pare una versione pompata di Londra. Gli americani non perdono occasione per dimostrare davvero un pessimo gusto nella scelta dei font, però a differenza nostra hanno le banconote da 1 dollaro, che ti fanno capire meglio il valore dei soldi. Mica le monetine sceme che abbiamo noi. Quindi, stima.
Anche l’odore dell’appartamento era molto simile all’odore della mia casa londinese, comunque. Un odore particolare, moquette polverosa mista a legno umido. Non necessariamente sgradevole ma comunque pungente. Dev’essere un tipico odore anglosassone.
Da dove iniziare, se non da Times Square? L’avevo sempre considerata una gigantesca affissione sparaflesciosa. Ma poi finalmente l’ho vista e ho capito che dovevo diffidare delle apparenze: Times Square è veramente una gigantesca affissione sparaflesciosa. Non c’è niente da vedere se non la pubblicità: e il fatto che la gente ci vada proprio per guardare la pubblicità mi ha fatto sentire per la prima volta veramente orgoglioso del mio lavoro. Anche se, ora che ci penso, in vita mia ho fatto solo un’affissione. E non era neanche sparaflesciosa.
La prima mattina abbiamo fatto colazione in un bar qualsiasi: c’era questo tipo sulla sessantina che indossava tranquillo un grosso cappello da cowboy. Avrei voluto abbracciarlo fortissimo, se solo non avessi temuto che mi avrebbe sparato con la 44 Magnum che senz’altro teneva in tasca. Non ho dubitato neanche per un istante che il nostro voterà Trump: sono i vecchi repubblicani come lui che hanno fatto grande questo paese. Il caffè macchiato che avevo ordinato faceva schifo esattamente come temevo, dunque sono uscito pienamente soddisfatto.
Che caos la metro di New York! Oggi diremmo che non è stata progettata tenendo conto della user experience; la verità è semplicemente che è fatta a cazzo, senza seguire il criterio europeo tradizionale, numeri, sigle e biforcazioni buttate lì random. Per fortuna in casa avevo trovato una vecchia copia de “Il Codice Da Vinci” e così sono riuscito a decifrare il percorso da fare per arrivare al Greenwich Village rileggendo il capitolo in cui Robert Langdon e la pronipote di Gesù Cristo aprono il caveau della banca svizzera usando la sequenza di Fibonacci.
Ma vale davvero la pena di prendere la metro? All’Oyster Bar della Grand Central Station le ostriche partono da 2 dollari l’una. Un biglietto della metro per arrivare alla Grand Central Station costa 3 dollari. Quindi il consiglio che vi dò è senza dubbio farvela a piedi, così potete ordinare un’ostrica in più.
Certo, alla fine la metro sembra comunque il male minore: finalmente ho trovato una città paragonabile a Roma in quanto a traffico. Era un po’ che non provavo l’emozione di restare bloccato in una coda senza via di uscita, e senza sapere quando finirà. Eppure come dicevo le metro non mancano. Dev’essere che Dan Brown non ha avuto molto successo, non c’è altra spiegazione.
Le sirene della polizia invece sono buffissime, quasi ridicole: sembrano prese pare pare da un videogioco di terza categoria del 1992. Bei tempi, comunque, quando bastava la cartuccia per il Game Boy di Street Fighter II per dare senso persino a uno stupido pomeriggio piovoso di novembre.
Gli USA comunque sanno anche essere magnanimi: una sera un tizio mi ha chiesto un documento per verificare che avessi l’età minima per bere alcolici. Che è 21 anni. E no, non è il caso di fare battute sceme, perché quel pover’uomo chissà che problemi di vista ha. Maledette assicurazioni sanitarie private.
L’ultima sera nella Grande Mela siamo andati a cena in un posto sciccoso. Il fatto è che, malgrado nella lontana Estate del 2011 io abbia conseguito un leggendario (ancorché tuttora inspiegato) punteggio di 101/120 al TOEFL, non abbiamo capito una ceppa. Sarà stata la musica forte, ma proprio non si capiva cosa dicevano i camerieri. Per non fare la figura degli scemi abbiamo risposto un sì convinto a ogni domanda, e ci siamo ritrovati destinatari di un flusso ininterrotto di pietanze sperimentali a base di pesce, ma roba tipo piovra, ravanelli, mirtillo e popcorn dolce (tutto nello stesso piatto). A un certo punto sono arrivati altri due cocktail e abbiamo capito che ci avevano estorto un secondo giro. Tutto buono, eh, solo volevo chiedervi se tante volte avete una frilensata da girarmi. Grazie.
Va detta una cosa, in conclusione: New York è figa, ma è brutta forte. Grossi palazzoni grigi e (soprattutto) marroni, alcuni neppure alti. Ma è proprio questa la lezione di New York: non c’è bisogno di essere belli per essere potenti. Valencia ha un centro storico che è un gioiello, ma non conta un cazzo. New York il centro storico non ce l’ha neanche, ma con i suoi palazzoni fallici alti in modo quasi esagerato può decidere quanto durerà il tuo prossimo mutuo.
Il sogno americano.
Il memoriale dell’11 Settembre è un bel monumento: semplice, sintetico, denso di significati. Due fontane quadrate ricavate nelle profonde fondamenta delle due torri. Al centro di ciascuna vasca, una nuova cascata: la fine, inutile dirlo, non si vede. Tutto intorno, ovviamente, i nomi delle vittime incisi nel marmo scuro. Mi ha ricordato, per rigore e carica poetica, il monumento più geniale eretto nel nuovo secolo: il memoriale per le vittime del nazismo di Berlino. E qui c’è tutta la differenza tra America ed Europa. Perché il monumento americano trasuda ancora stupore per l’accaduto: a noi non succederà, non ci faremo rovinare le nostre città come voi stupidi europei, nessuno potrà scalfire i nostri prepuzi di cemento armato. Saremo migliori di voi. E invece. Il monumento tedesco, al contrario, è un monito. Prima di tutto verso se stessi: una rappresentazione dettagliatissima di come si arriva, passo passo, a prendere sotto braccio l’orrore. C’è dentro tutta l’angoscia di un popolo che si è risvegliato dall’ipnosi con una mannaia insanguinata in mano, con il terrore, se si distrae nuovamente un solo istante, di ritrovarsi di nuovo nel baratro. Ecco la differenza: New York onora le prime morti che ha subìto, Berlino si dispera per le morti che ha causato. L’Europa è più adulta.
Il nuovo World Trade Center comunque è bello. Sembra un po’ una piccola Piazza Gae Aulenti.
Amiamo ripetere spesso che il toro va preso per le corna. Poi ho scoperto che invece dalle parti di Wall Street c’è l’usanza benaugurante di tastare lo scroto dorato della statua del toro. Pare che porti fortuna. Ma perché non ci abbiamo pensato prima? Il toro non va preso per le corna: va preso per le palle.
Quante emozioni sulla 5th Avenue! Mentre ero in un negozio, indeciso se comprare o no una borsa, improvvisamente è partita “Man In A Suitcase” dei Police alla radio. Inutile dire che l’ho presa subito. È bello che Gordon, Andy e Stewart trovino il modo di consigliarmi anche in differita, a 35 anni di distanza. Devo ricordarmi di seguire sempre le sensazioni.
Poco più avanti invece c’era la sede della Sliding Door Company, a quanto pare il principale installatore di porte scorrevoli. Ma per entrare, c’è una porta a spinta. Applausi.
Lo shopping però nel complesso mi ha deluso. Curiosamente tutti sono scimmiati con la 5th Avenue, quando invece su Madison Avenue ci sono molti più negozi, molto più belli. Ma si tratta di alta moda. Anche setacciando con cura il Greenwich Village, invece, non escono fuori grandi cose in quanto a moda indie: detto fuori dai denti, Camden Town e Friedrichstrasse gli fanno un culo così. E probabilmente persino Porta Portese non è messo male. Tutto questo per dire che, ahimé, non ho trovato nessuna camicia di mio gradimento.
Il terzo giorno mi sono dato appuntamento con Maria, una mia vecchia amica dell’Erasmus. Lei vive in Nebraska, ma proprio in questi giorni era a New York per un corso di aggiornamento, una coincidenza semplicemente assurda di cui non potevamo non approfittare. A Gennaio ha perso il fratello maggiore per un tumore meschino che se l’è portato via in dieci settimane, una di quelle cose per cui uno vorrebbe afferrare Dio con la forza e mentre due amici lo tengono fermo dargli un bel po’ di pugni seri sulla bocca dello stomaco. Forte. Invece quel vigliacco non si fa trovare mai. Lei però il sorriso non lo avevo perso, e neanche quella gentilezza così leggera e sensata che possiedono gli americani quando sono intelligenti. Abbiamo parlato a lungo, con tutta la piacevole fatica del dover capire e farsi capire. Quanti amici che ho a dieci chilometri da casa, invece, e per un motivo o per l’altro non vedo da mesi.
Gli americani, comunque, su alcune cose sono stupidi. Ma proprio stupidi stupidi stupidi. Diluvia, c’è un’umidità che levati, forse c’è pure l’uragano Joaquim in arrivo, e loro tengono l’aria condizionata a stecca. Senza motivo. Io amo l’aria condizionata, è un diritto inalienabile dell’umanità, sono disposto a battermi per essa, ma magari fuori è Ottobre. È Ottobre, cazzo. Per carità, capisco la rivalità storica col Giappone, ma un modo meno autolesionista di violare il Protocollo di Kyoto secondo me si trova.
E gli hamburger? Per carità, lo sanno tutti che le proteine animali fanno male. Lì però le hamburgerie più blasonate si compiacciono con orgoglio di non aggiungere nulla alla loro carne: antibiotici, ormoni, conservanti. In pratica si vantano di qualcosa che dovrebbe essere il minimo sindacale, un po’ come se io dicessi di essere una persona dal cuore d’oro perché anche oggi non ho sgozzato nessuno con una grossa sega arrugginita. Mah.
Essendo il mio primo viaggio fuori della mia cara Europa (da buon romano, ogni volta che mi sono trovato a visitare qualche provincia dell’impero mi sono sempre sentito a casa), da incrollabile eurocentrista mi sono chiesto se, per contrapposizione con gli USA, sarei riuscito a identificare qualche tratto comune che contraddistingue la cultura europea in generale, al netto delle differenze nazionali. La risposta è sì. Oltre al calcio, noi europei abbiamo un rapporto sereno con i pagamenti. Quello americano è invece schizofrenico. Tanto per cominciare, i prezzi esposti sono sempre netti: l’IVA viene conteggiata sempre dopo, alla cassa. È come se volessero prendere le distanze dallo stato: come dire, fosse per me te lo farei pagare solo x, ma per colpa dello stato porco bastardo bastardo porco sono costretto a fartelo pagare y. Ma ancora più sorprendente è la situazione delle mance: i camerieri vengono pagati anche solo due o tre dollari l’ora, e i soldi per campare li alzano grazie a queste somme, teoricamente non dovute, tacitamente estorte ai clienti con percentuali talvolta spropositate. Persino il 25%, che su un caffè sposta poco, ma su una cena sposta tanto. Una specie di sistematica evasione fiscale legalizzata. Una specie di lobby o, se preferite, una specie di mafia.
Gli americani, però, hanno anche un grande pregio, che è lo spirito patriottico. Quando decidono che devono unire le forze per sistemare qualcosa sono impareggiabili. Guardavo le immagini di New Orleans durante una partita di football, a dieci anni di distanza dall’uragano sta meglio di prima. Noi europei (e in particolare noi italiani) dovremmo imparare a mettere da parte i campanilismi quando c’è un problema serio da affrontare e unire le energie. In questo gli americani possono essere un bellissimo esempio. Poi certo, pensi che molti di loro moriranno senza essersi mai fatti un bidet, e a quel punto il giudizio inevitabilmente si ridimensiona.
Le arti.
Meravigliosa idea la High Line: una vecchia ferrovia in disuso trasformata in un parco sopraelevato. Non ho potuto fare a meno di chiedermi che fine farà la tangenziale di Roma quando fra qualche decennio l’auto cadrà in disuso. Forse è meglio non saperlo.
Il MoMA è un diario impietoso del rapporto tra Europa e USA. È zeppo di capolavori europei: testimonianza del fatto che senza l’impronta dell’Europa gli USA non avrebbero alcuna personalità, ma anche del fatto che l’Europa si è lasciata allegramemte surclassare dalla sua creatura. Un furto travestito da celebrazione, insomma.
La spirale del Guggenheim invece era chiusa per allestire una mostra su Alberto Burri. Alberto Burri. Sì ok, è italiano. Per carità. Ma Alberto Burri. La spirale del Guggenheim. Alberto Burri. Ma porca puttana.
E la musica? Gli USA sono la patria del jazz, per esempio. Ma occhio al Blue Note. Perché qui c’è quello vero, mica quello imbruttito lombardo. Meglio documentarsi prima sul gruppo della serata: quello che abbiamo visto noi ha atteso coscienziosamente 43 minuti per cominciare a suonare musica (quella cosa che di solito ha un ritmo e una melodia, no?). Prima, solo strombazzate sfiatate, gomitate sulla tastiera e note a caso. Non ho mai visto quattro persone così impegnate a non produrre nulla di neanche vagamente godibile. Un giapponese in mezzo al pubblico non ce l’ha fatta e si è addormentato, poverino. (E comunque il Mai Tai a Isola lo fanno più buono.)
Alti e bassi, insomma: una sera ci siamo dovuti sorbire “Pappà l’Americano” durante l’aperitivo di fine giornata, e addirittura un incredibile Biagio Antonacci mentre aspettavamo il treno per Boston alla Penn Station. Ma vedere gli americani che canticchiano la loro musica è bellissimo: per noi sono frasi d’importazione, per loro sono parole vive, quotidiane. Mentre finivamo di bere l’ultimo cocktail dell’ultima serata “Mo Money Mo Problems” di Notorius B.I.G. era semplicemente perfetta; e lo dice uno che i rapper li prenderebbe tutti a sprangate sulle rotule, dove fa più male.
Alla fine ho comprato il libro di Humans Of New York. Volevo leggerlo in treno, in viaggio verso Boston, e però mi sono addormentato.
Boston.
Ma che carina Boston! Lontana dal caos machista di New York, se ne sta acquattata sull’oceano con le sue università e le sue ostriche, rilassata e calma. Sarà perché è stata la città da cui è partita la rivoluzione con il famoso Tea Party, e quindi è forse l’unica grande città ad aver conservato la sua originale fisionomia europea. In effetti quando ho protestato perché un tizio mi stava mettendo sotto con la macchina lui mi ha fatto amichevolmente il gesto della decapitazione con la mano, e insomma mi sono sentito subito a casa.
A Boston si fanno i frustoni, comunque. La prima sera andando a cena siamo passati per il parco e c’era una smella di erba che pareva di essere in via Zamboni il Primo Maggio.
Quando nei film americani fanno vedere il fumo che esce dai tombini uno pensa che succede solo a Gotham City nel rifugio di Pinguino, invece succede veramente. Persino a Boston. Ma cosa sarà quel fumo? Non sono sicuro di volerlo sapere.
La conferenza.
La conferenza della Direct Marketing Association, finalmente; che poi era il motivo effettivo del viaggio. Nell’entusiasmo dei preparativi, ci eravamo dimenticati di portare i biglietti da visita. Domanda legittima: servono davvero, nell’epoca di LinkedIn? Secondo me no, ma nel dubbio il mio art ha escogitato una mossa semplice ma geniale qualora ce li avessero chiesti: dire che li avevamo già finiti. Inutile dire che ha funzionato alla grande. Ma quanto siamo stati disruptive, eh? Quanto?
Il problema reale, in una fiera sul direct marketing, è che il 90% degli espositori non hanno praticamente nulla da mostrare, perché sviluppano piattaforme per collezionare e intersecare informazioni (i famosi big data). Servizi applicati ai servizi: il livello di astrazione è semplicemente troppo alto per poter realizzare una demo sufficientemente avvincente. Per questo motivo puntano tutto sui gadget, il più delle volte terribilmente scemi e totalmente scollegati dal brand. Il format è: saluti di circostanza, scansione del qrcode sul badge (sì amici, il qrcode è vivo e lotta insieme a noi), carriole di gadget. In pratica ti estorcono i dati personali in cambio di un oggetto stupido ma GRATIS. Tanta roba: i più banali hanno delle stupide penne (per carità, prese anche quelle), i più geniali regalano emozioni vere. Nella mia personale top 3 si sono collocati:
– Grattaschiena in plastica bianco, quello con la manina per intenderci;
– Mega impianto di hockey balilla con tanto di musichette a tutto volume nello stand delle poste canadesi;
– Scimmia volante, che si carica con un elastico nelle zampe a mo’ di fionda e si lancia a tutta forza.
Per quella che è la mia visione del mondo e della vita, la scimmia volante è valsa da sola l’intera settimana di viaggio negli USA.
Cosa non si fa per avere un gadget, comunque: sorbirsi un quarto d’ora di presentazione di una piattaforma di data analytics per avere un elefantino di peluche, oppure scolarsi un Moscow Mule alle tre di pomeriggio per avere una (ambitissima) tazza di Adobe.
Quando dicevo che eravamo italiani, comunque, facevano sempre una faccia stupita, come se avessi detto che tutti i giorni a colazione inzuppo la pancetta nel Nesquik. Neanche gli avessi detto che avevo aperto un’agenzia su Kepler 452-b ed ero in cerca di partner per fare new business. E così quando gli abbiamo detto che eravamo italiani, il tizio delle poste canadesi ha spalancato il suo miglior sorriso e ci ha detto “Bonjour!”. Uomo di mondo. C’era una sola cosa da fare: lavare l’onta battendo il Canada 4-3 a Hockey Balilla. Bonjour un cazzo.
In ogni caso, mi sono riconfermato Gran Maestro del Buffet. In particolare grazie alla celebre tecnica della “terza mano”, da me ideata e perfezionata, con cui riuscivo a mangiare un miniburger tenendo saldamente il bicchiere di prosecco mentre afferravo al volo una tartina. Devo proprio decidermi a fare quel videotutorial su YouTube, sono ormai in troppi a chiedermelo.
Quelli del marketing comunque sono proprio un’altra specie rispetto a noi creativi. A loro la cerimonia degli Award neanche interessa, motivo per cui l’hanno messa la penultima sera per evitare che andasse mezza deserta. Mi spiegava un delegato italiano che nessuno lì ha voglia di perdere una notte in più di albergo solo per vedere un premio. Chissà oh, magari hanno ragione loro.
Gli insegnamenti.
Cos’è il rischio? Possedere una sola giacca e ordinare comunque la zuppa di frutti di mare. È andata bene.
Cos’è la sicurezza? Portarsi di propria iniziativa una borsa alla convention per raccogliere tutti i gadget e le brochure. Poi finisce che nel welcome kit è incluso uno zaino e devi passare tutta la giornata con una borsa di troppo.
Qual è la morale? Che inseguire la sicurezza può essere più controproducente che accogliere il rischio.
I guru del marketing americani presentano sempre dei modelli di analisi della società e del mercato contemporanei basati su quattro o cinque parole chiave. Possiamo distinguere tre categorie di guru. Quelli scarsini mettono delle parole e basta; quelli bravi trovano tutte parole con la stessa iniziale e ti presentano “Le 5 M per capire i Millennials” (tutta colpa delle 4 P del Marketing Mix di Philip Kotler), con la costante che almeno una delle parole non c’entra un cazzo e sta lì solo perché ha l’iniziale giusta; i fuoriclasse sono quelli che trovano parole che ne costruiscono un’altra di senso compiuto, e qui la costante di parole scelte a cazzo solo per completare l’acrostico di solito raggiunge il 50%. Il tratto comune a TUTTI i guru è che entro 2 minuti e 31 secondi dall’inizio del seminario pronunceranno la parola “challenge”. Non si scappa.
Interessante il seminario “7 human behavior hacks that increase engagement and response”. Ma interessante in modo sinistro, naturalmente. Personalmente lo avrei intitolato, per restare fedele agli stilemi del direct marketing più militante, “7 cose che i consumatori non ti hanno mai detto che non sapevano di non voler farti sapere”. Si parlava di cose tipo la comunicazione dei numeri, offrire sempre più alternative per non far sentire l’acquirente costretto; oppure inserire i centesimi quando si parla di risparmi per far sembrare la cifra più grande, non inserirli quando invece si parla di prezzi per il motivo opposto; oppure ancora sfruttare l’avversione al rischio. Uno dei libri migliori che abbia mai letto si intitola “L’arte di pensare chiaro”: è scritto da un broker svizzero ed esplora tutte le falle logiche insite nel ragionamento umano. Perché il problema reale non è certo capire perché hai cliccato su quel banner invece che su quell’altro. Il problema reale è capire perché quel sabato pomeriggio hai annullato qualsiasi impegno e sei salito di corsa su quel treno per passare tre ore contate con quella persona così speciale eppure così inaccessibile, anche se razionalmente sapevi benissimo che era uno sbaglio. Ma era davvero uno sbaglio? Questo nel seminario non lo spiegavano.
Inquietante anche il seminario di Jon Iwata, il nippoamericano vicepresidente di IBM. Ha parlato di Watson, il megacomputer che ha sconfitto il campione del telequiz Jeopardy. Ma perché, dio bòno? Eravamo quelli eleganti del duello Kasparov-Deep Blue, ci siamo distratti un attimo e vai con la trashata in prima serata condotta dall’Enrico Papi statunitense. Perché dobbiamo sempre rendere tutto pop? Si chiama intelligenza artificiale proprio per evitare che gli stupidi possano capirla, no?
E i Millennials? Vuoi non parlare dei Millennials? C’era uno che diceva che lavorano meglio perché scrivono tutto col pennarello su dei grossi fogli che tengono appesi al muro. Il fatto mannaggia è che io proprio detesto scrivere, è più forte di me. Bella comunque la citazione del pilota Mario Andretti: “Se hai tutto sotto controllo, vuol dire che non stai andando abbastanza veloce.”
Penso siamo tutti d’accordo che il Nasdaq è una delle cose più noiose che esistano (seconda solo a un saggio di Odifreddi sulla non esistenza di Dio). E così il social media manager del Nasdaq ci ha spiegato la loro strategia: usare Snapchat, Periscope e tante emoji per convincere i millennials che non si tratta di un indice di borsa, bensì di una scanzonata banda di innocui cazzoni. L’ho trovato geniale.
Otis Maxwell invece regalava una copia del suo libro “Copywriting that gets results” a chiunque intervenisse durante il suo seminario. Pur di accaparrarmi una delle ultime copie ho sfoderato la mia miglior faccia da culo e gli ho fatto una domanda supercazzola che neanche mi ricordo bene, però avevo una pronuncia veramente impeccabile.
Sempre affascinante sentire Kevin Roberts, comunque: il gorilla di Cadbury l’abbiamo visto tutti 846 volte e la filosofia dei Lovemarks nell’epoca dei big data ormai scricchiola seriamente, ma il fatto che continui a dargli senza apparente fatica un senso ancora pienamente contemporaneo lo conferma senza ombra di dubbio come un fuoriclasse delle presentazioni. Anche perché indossava una camicia con un dragone disegnato sulla schiena, quindi doppia stima.
Mi ricordo la prima volta che lessi Lovemarks, fresco di laurea, sulla veranda della casa al mare nell’ormai lontana estate del 2006: ero giovane e mi sembrava plausibile che si potesse essere buoni senza rinunciare a essere fichi. Ma chissà se ho davvero smesso di pensarlo.
Il workshop conclusivo prevedeva un ospite d’eccezione: John Legend. Mi ha colpito la naturalezza con cui è stato presentato come “musicista e imprenditore”: per loro è perfettamente sensato essere entrambe le cose, in Italia qualcuno si straccerebbe le vesti gridando allo scandalo, perché l’arte non è in vendita. Come se poi la SIAE fosse una fondazione benefica. Bravissimo eh, solo che per fare due pezzi (ma proprio due, eh) ci ha imposto 25 minuti di pippone esistenziale sulla sua gioventù difficile per poi battere cassa per le sue fondazioni. Era dai tempi del dibattito Prodi-Berlusconi per le politiche del 2006 che non mi massacravo gli zebedei in quel modo.
E comunque.
Bella l’America, ma non ci vivrei.