Parole assassine, parole assassinate.
Rosso.
Rivivo il mio crimine, scena dopo scena, in bianco e nero come nei film.
L’unica nota di contrasto è quel segno rosso, pesante, duro, calcato per infliggere un’altra ferita.
Mi chiedo se è così che lo racconterò, mi chiedo se lo racconterò o se nessuno verrà a cercarmi per chiedere spiegazioni.
Potrei anche farla franca.
Mi domando se userò l’espressione che usano tutti, quella che si legge sui giornali, quella riportata nei notiziari tv :
– L’ho uccisa perché l’amavo–
Sì, lo confesso a me stesso: l’amavo come non avevo mai amato nessun’altra.
L’amavo come si ama una creatura che esiste come un blocco di marmo ma solo un artista come me la trasforma in capolavoro.
L’amavo come una parte di me.
L’amavo per l’estetica che ero riuscito a donarle.
L’amavo perché nella sua capacità di convincere riconoscevo le mie stesse parole, i miei modi, i miei toni.
L’amavo perché avrebbe avuto successo e di quel successo avrei vissuto anch’io.
L’amavo perché era mia, ammirata da tutti ma solo mia.
E poi è arrivato lui, quello là, quello che ha sempre da ridire e da criticare.
È arrivato a dirmi che non poteva restare così, che con la mia influenza potevo e dovevo cambiarla per farla diventare un’ altra cosa, un’altra cosa che non avrei amato.
Così l’ho uccisa, un segno rosso dopo l’altro, una parola su un’altra parola.
Le ho usato violenza, crudeltà, l’ho rinchiusa in una gabbia di paletti strettissimi.
L’ho torturata fino a sfigurarla.
L’ho ferita nel profondo.
L’ho uccisa, finalmente.
Era scomparsa e al suo posto c’era un’altra.
Le mie mani erano sporche ma quest’altra non l’avrei toccata.
Adesso era come la voleva quello là, lui e tutti quelli là.
Ora non so se verranno a interrogarmi su questo crimine.
Probabilmente no, forse la verità non fa piacere a nessuno.
La verità non fa piacere nemmeno a me che l’amavo e l’ho uccisa.
Perché un’altra headline così non la scriverò più.