Parole brute: una torbida storia di copywriting e design.

La casa (molto) ideale di una copywriter.

Parole brute

Ogni tanto capita ancora che una copy si decida a metter su casa. Una sistemazione di ripiego, non certo il terracielo in campagna a due passi dalla città ricavato da un vecchio capannone dismesso, miracolosamente non radioattivo, tutto legno vetro e cemento che sognava tra un payoff e l’altro. Il gruzzolo che stringe speranzosa tra le mani non proviene da un conto rimpinzato a dovere, è piuttosto il sudatissimo frutto della rinuncia all’arte – e all’art, distacco assai doloroso – per un lavoro in azienda con mensile fisso che consenta di varcare, non solo con l’immaginazione, la soglia delle quattro settimane.

Insomma, è un evento epocale. Un’unica sede per un rapporto stabile e di mutua fiducia con una persona che non ragioni necessariamente in formato .ai, .psd o .jpg non è affare da poco. Ma le insidie sono nascoste in ogni angolo e se anche voi come lei siete alle prime armi fareste meglio a leggere.

Per trovare una mattonella o un divano di suo gusto la copy partirà con metodo scrivendo sull’amato Google la chiave di ricerca più sintetica e specifica ma non appena vedrà materializzarsi tessuti, cuscini e pattern si dimenticherà di controllare l’ultima ma importantissima riga dei brevi testi illustrativi: quella relativa al prezzo. Inizierà così a vagheggiare un salotto colorato, in perfetto ordine e con mensole ridotte all’essenziale per la casa che diventerà il suo studio, fonte inesauribile di energia ed ispirazione; un posto bello, dove non dover passare tutto il tempo libero a spolverare, tanto nel giro di dieci secondi il pulviscolo si rideposita ineluttabilmente ovunque.

Ma quella roba se la potrà davvero permettere? Chi o cosa è la causa del suo distacco dalla realtà? Le bodycopy emotive ovviamente, che fanno leva sul suo dannato bisogno di circondarsi di cose belle, lineari e funzionali senza rinunciare ad un tocco di originalità.

In ogni caso l’illusione dura il tempo di pochi click, la realtà non aspetta altro che mettere a dura prova la copywriter innamorata della sua casa ideale; gli addetti vendita la sfideranno, ancor prima che a colpi di euro (battaglia persa in partenza a meno che non ci si chiami, che so, David Ogilvy) sul duro terreno delle parole. Proprio loro, solitamente così care e inoffensive, alla prima occasione di compravendita sono capaci di trasformarsi nelle brute della situazione.

Iniziamo con cose semplici tipo laminato laccato: per la copy ignara è una definizione che sa di metallo e astronave, scoprirà solo dopo molti preventivi che si tratta di legno non meglio identificato appiccicato a supporti apparentemente super-moderni al fine di creare mobili e sportelli che non sembrino di legno.

C’è poi l’insidiosa pietra sintetica, che solo a sentirne il nome sembra l’unico piano di lavoro possibile in cucina: ci si potrà tagliare di tutto, appoggiare pentole incandescenti e accogliere sorridendo qualsiasi cataclisma… Ma andando a stringere è solo sinonimo di mille euro in più sul prezzo finale della composizione. Volete ricoprire con della pietra sintetica una posata? È uguale: sono m-i-l-l-e-e-u-r-o-i-n-p-i-ù.

E ancora il buono d’acquisto, scivoloso e obliquo nella sua promessa di rimborso pari all’importo speso per l’acquisto successivo: infatti non può essere consumato in una sola volta, copre al massimo il 30% del costo e dura in tutto tre mesi.

Menzione a parte per il top di gamma: definizione che TUTTI i progettisti di TUTTI i negozi di arredamento avranno la faccia tosta di appioppare a qualsiasi cosa giustificandone il prezzo esorbitante, anche una mensola di legno brutta e storta. Davanti a un affronto simile vi consiglio di non obiettare nulla se non volete passare per spilorci ma potete sempre intavolare il seguente dialogo mentale con il malefico intermediario:

“Perché questi mobili squadrati e di un solo colore sono considerati top di gamma?”

“Semplicemente perché piacciono.”

“Non sarebbe più logico definire top di gamma un armadio antico, tutto in legno massello, finemente lavorato e dalle forme particolari?”

“Spiacente baby, è il mercato: adesso vanno le soluzioni componibili e colorate e se il tuo peccato è desiderarle non hai scampo, devi pagarle un occhio della testa.”

“E perché, di grazia?”

“Per i costi di produzione!”

“Ma sono degli stupidi rettangoli senza maniglia, dove sono i costi di produzione?”

“Ma come! È proprio IL FATTO CHE NON CI SIA LA MANIGLIA che innalza il prezzo! Tagliare tre centimetri di sportello in meno e ricavare uno spazio dove infilare le dita, ecco IL VERO LUSSO!”

Che quella del top di gamma sia una fanfaronata lo dimostra l’ultima parola coniata in fatto di design: shabby. Per intenderci, lo stile dei piatti dipinti a mano di vostra nonna o della credenza rustica che tanto piace ai vostri genitori; cose categoricamente escluse dall’arredamento dei vostri sogni fin dall’età di sei anni ma che, essendo diventate vintage (altro termine infernale che non ha niente a che fare con le pin-up, vuol dire solo “vecchio di almeno vent’anni”), non solo sono trendy ma vi svuotano il portafoglio. La dicitura completa è shabby-chic. così anche un tavolaccio che a vederlo sembra si regga con lo sputo può costare l’equivalente di un rene, senza pensieri.

Insomma, le parole ingannano e lo fanno anche con chi vuole loro più bene; parola di copy con il brutto vizio dell’arredamento immaginario. E che, senza offesa, preferisce pensare di andare a vivere con qualcuno invece di convivere e dire che il suo ragazzo sta mettendo a posto un piano libero di casa sua invece di rassegnarsi al fatto di abitare sopra i futuri suoceri (che dico, i genitori del suo ragazzo!). Che brute parole.

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