Parole a pacchi: elogio al packaging.

DSCN1775Pamphlet in difesa

del packaging che informa, racconta e coinvolge.

Sto per rivelarvi una cosa che detta altrove provocherebbe nella migliore delle ipotesi ilarità e, nella peggiore, preoccupata perplessità. In questa sede però, fra gente che ha eletto la parola a fonte di sostentamento, so di poterlo fare. Lo confesso: leggo i testi delle confezioni del dentifricio; non solo, anche quelli del packaging dei cracker. Lo faccio soprattutto per premiare chi li ha scritti, persone che meritano rispetto perché nel farlo si sono impegnate. Mi è capitato di rado di lavorare a cose di questo tipo; se sapessi che qualcuno si è preso la briga di buttare l’occhio sul corpo minuscolo di quei caratteri ne sarei gratificato.

Poesie in terzine di endecasillabi su confezioni di merendine; consigli dietetici esposti con linguaggio da luminari della medicina su involucri di fette biscottate light; ricette da chef stellato – definizione irritante – su scatole di riso; storie di alchimisti degne di Marguerite Yourcenar su flaconi di prodotti di erboristeria. Parole che compiono uno sforzo eroico per cercare di farsi leggere e fare la differenza, con buona pace dei più cinici; testi dietro i quali c’è del lavoro, del buon lavoro.

Sono un sostenitore delle confezioni comunicative, non mi faccio blandire da quelle scaltramente minimaliste; propendo per contenitori che valorizzino l’atto del consumare. Non mi riferisco solo a cibo e bevande, ma anche ad altre categorie di prodotti, comprese quelle che per consuetudine limitano le informazioni riportate sul packaging alle norme d’impiego.

Auspico l’adozione di un approccio di questo tipo anche per determinati farmaci. Gli antidepressivi per esempio meriterebbero confezioni studiate per coinvolgere emotivamente chi li assume. Perché i biscotti sì e la Paroxetina no?  Da una casa farmaceutica evoluta mi attenderei scatole con grafiche pop art e blister cromati contenenti compresse con emoticon sorridenti; meglio se accompagnate da nomi che invece di ispirarsi a molecole e principi attivi attingessero a un immaginario rasserenante; ancora meglio se condite con storielle a lieto fine e citazioni da Candido, o l’ottimismo di Voltaire nel bugiardino.
Certo, l’autorevolezza scientifica esige da questo tipo di medicinali codici verbali e visivi ormai divenuti archetipi, ma scardinarli, operazione audace, potrebbe rivelarsi producente.

Avendo frequentato, sia pur per breve tempo e in quantità risibile, la farmacopea del benessere indotto, credo di poter dare almeno un suggerimento. Tra le parole che meglio si presterebbero a fare da contrappunto lirico alla scientifica freddezza delle indicazioni terapeutiche c’è il ritornello di una canzone che ha come titolo un ossimoro, scritta da un mio carissimo amico, leader della band Prozac+. È un invito a cogliere la luce in fondo al tunnel, che vedrei bene, magari stampato in Lobster, sul packaging di una qualsiasi pillola della felicità:

io sono gioia nera / non pensare più a me / non pensare più a me
io sono gioia nera / non pensare più a me / non pensare più a me

 

I have a drum… ho un sogno: pubblicizzare batterie.

I have a drum - pubblicizzare batterieI have a drum… mi correggo, a dream: ho un sogno, quello di scrivere testi pubblicitari per una casa produttrice di batterie. Non batterie da cucina, ma da suonare, categoria strumenti musicali. Sugli strumenti di cottura, per professione, ho scritto già abbastanza, così come ho scritto a sufficienza di parecchie altre cose.

Negli ultimi vent’anni ho preso in prestito modi di dire e saccheggiato le figure retoriche per pubblicizzare prodotti e servizi di tutti i tipi. In frigo conservo i lavori relativi al beverage; ho sistemato in ogni angolo della casa quelli che hanno a che fare con l’arredamento; negli armadi tengo un bel po’ di roba fatta per il settore dell’abbigliamento e in garage le cose realizzate per quello motociclistico. Mi fermo qui, le elencazioni sono noiose. Mi limito ad aggiungere che la campagna per la vita promossa da un’agenzia di onoranze funebri – tra le iniziative più divertenti alle quali mi è capitato di collaborare – me la porterò nell’aldilà.

Mentre sto buttando giù questo pezzo – chi suona un qualsiasi strumento a percussione lo troverà del tutto naturale – a ogni pausa creativa/contemplativa alterno all’atto di battere con le dita sulla tastiera quello di percuotere con le mani il bordo del tavolo, scandendo figure ritmiche a caso. Un mio collega, anch’egli batterista, ma grafico (non faccio nomi, ma specifico che possiede una batteria di marca DW nera), se leggerà questo post vi si riconoscerà: al lavoro tamburella spesso sulla scrivania anche lui, lo sento a quattro porte di distanza.

Ripeto: I have a drum… sorry, a dream, quello di pubblicizzare batterie. Ma vanno benissimo anche i piatti. Intendo piatti sonori, di bronzo, da battere, non da sbattere in lavastoviglie. Insomma, vorrei fare del copydrumming (suona bene, vero?). Si facciano dunque avanti le case produttrici. In Italia ce ne sono diverse, piccole ma eccellenti, mi metto a loro disposizione. In quanto batterista, la materia mi è talmente congeniale che per affrontare il lavoro non avrei bisogno di niente. Le idee arriverebbero rapide, a raffica, come rulli a colpi singoli in sedicesimi eseguiti a 180 battiti al minuto. L’unico problema sarebbe la scelta dei testimonial. Quelli che ho in mente io, Travis Barker, Stewart Copeland e Taylor Hawkins – tanto per nominarne tre che spaccano – sarebbero decisamente fuori budget. Inutile comunque pensarci ora. Alla peggio mi offrirò come testimonial io.

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