Una rural copy alle giurie dell’ADCI Award.
A chi non l’ho ancora detto?
Ho avuto l’onore di essere invitata da Annamaria Testa a far parte della giuria stampa e affissione dell’ADCI Award. E io, umile copy di campagna, con 25 anni di lavoro in agenzie emiliano romagnole, dopo una notte insonne per l’emozione, certo che ho accettato! Il tutto si è svolto un paio di weekend fa a Rimini, sotto un diluvio universale.
Cosa vorrei condividere? Perché una cosa è certa: ho bisogno di dividere con voi pane e pesci di questo bel miracolo che mi è capitato, moltiplicare il vino, rigorosamente Lambrusco, e passarvi un mezzo etto di sinapsi dopate e rumorosamente alticce.
L’Art Director’s Club Italiano per me è sempre stato niente di più di una serie di Annual su uno scaffale del reparto creativo. Tra l’altro, negli ultimi anni, manco aperti più di tanto (ma quelli vecchi, quelli degli anni ’80 e ’90 sì, tanto da consumarli). Una ristretta cerchia di segaioli mentali, che si premiano fra loro, fighetti di Milano, lontani anni luce dalla quotidianità d’agenzia, dal sangue e sudore versati ad account schienati su clienti piccoli di budget e di vedute.
Poi però è arrivato Massimo Guastini, un presidente che ha cercato di cambiare le cose, piano piano, e che ha fatto ritornare nel Club persone come la Testa, Marco Carnevale… Insomma, un bel progetto, ho pensato. Sono andata a vedere e… mi sono emozionata.
Sì, ok, eravamo un centinaio di persone e io non conoscevo nessuno, ma non è quello.
Abbiamo lavorato intorno alle entry ininterrottamente a testa bassa, ma non è quello.
Mi sono trovata a discutere animatamente e a sgomitare su head, font, loghi, concept, crafting… Ma non è quello.
Quello che mi ha emozionata è stata l’aria che tirava. Sguardi, sorrisi, pugni sul tavolo, anime scintillanti e tutte di fuori. Alla ricerca della definizione di una cultura della comunicazione che restituisca a tutti, agenzie, professionisti e clienti, entusiasmo, dignità e bellezza.
Non c’erano persone dell’ADCI riunite per le giurie, c’erano chili di passione, serietà, partecipazione, impegno, desiderio, concentrazione, voglia di nuovo e senso della realtà.
Tutto questo mi è rimasto appiccicato addosso come un chewingum sotto la poltroncina del cinema e, se fosse possibile, ora sono più pesante e, incredibilmente, più leggera. Pesante perché ogni giorno, su ogni lavoro, pretendo il meglio, non solo da me stessa ma, ahimè, anche dai miei collaboratori (sono diventata insopportabile). Leggera perché mi sono re-innamorata del mio lavoro.
Insomma, sono tornata cambiata. Ed è molto colpa di Annamaria Testa, del Manifesto Deontologico dell’ADCI che lei ha voluto con forza, che difende con i denti e che applica alla lettera. Del caffè che abbiamo preso insieme, parlando fitte fitte di questa strana professione.
Ecco, essere Annamaria Testa a Minerbio, nella bassa bolognese, davanti ai brief quotidiani: è una tensione, una provocazione, una scommessa. In questo periodo difficile e buio, io ho trovato per terra un accendino. E ve lo passo.
