a volte ci si immagina cose che non hanno nulla a che fare con il proprio prodotto,
con il proprio lavoro,
con le richieste di tutta quella piramide che sovrasta
il tuo piccolo cervello di creativo.
ieri, forse, quando un’azienda pensava di non poter guadagnare nulla, con un’idea, la cestinava
oggi, mi piace pensare, che l’azienda sia grande abbastanza da riconoscere un valore sociale ai soldi che spende e decidere di spenderli ugualmente.
sicuramente perché il guadagno ci sarà comunque. anche se non sempre si tratta di soldi.
la comunicazione, il valore di marca,
pretendono oggi un coraggio, una lungimiranza,
una contemporaneità che sono certa non possa
che essere premiata.
Sono giorni che mi chiedo dove vanno a finire. Compaiono nebulose al mattino, subito dopo il rumore della sveglia. Si affacciano nel bicchiere quando hai appena preso coscienza del cosmo. E ti seguono nei mille gesti che occupano le mani in altre piccole e laconiche faccende.
Si zittiscono per pudore e muto richiamo quando inizia la fatica di ogni giorno. Quel lento incedere del pensiero che cerca sempre un varco tra le carte, quel fare che diventa essere pur essendo vapore d’idea, quell’incedere da equilibrista che nasconde il sudore dell’impresa.Stanno lì inesplorate, volutamente in disparte. Come chi non vuole mischiarsi con un mondo estraneo che pur gli appartiene. Forse fin troppo.
Tornano nelle pause ma sempre a passo leggero, senza far rumore. Le cogli di sfuggita senza dargli seguito, senza prestare attenzione. Dimenticando con consapevolezza quel momento che non avrà più memoria. Poi l’assalto al ritorno a casa, sotto il sole tiepido, nelle pieghe del libro non finito, nelle dita incrociate, nella scorta di idee incompiute. Si mangiano le unghie, si torcono i capelli.
Sono attesa pura e pura impazienza.
Fino a quando gli occhi si richiudono, rintanandole con le altre, nel mucchio di quelle che ci sono già passate. E quando, per puro caso, ricordi di averle viste lì e provi a rimetterle in ordine, sembrano sparite improvvisamente. Senza mai esserlo del tutto.
E allora lo chiedo a voi, che siete più bravi di me: dove finiscono tutte le parole che, chi scrive per mestiere, non ha il tempo di fermare? Quelle forse inutili al dovere ma che nascono per qualche intima ragione insoluta. Dove finiscono le parole che parlano di noi e che noi ripudiamo per parlare d’altro?
Perché se esiste un paradiso delle parole perdute, come quello dei calzini spaiati, è lì che voglio andare in vacanza.
Ho scritto l’ennesima sintesi biografica di un collega.
È così. Arriva sempre il momento in cui devi parlare di te stesso,
spiegarlo davanti a una telecamera, lasciarlo impresso nell’header di un sito,
scriverlo a lettere cubitali sulla cartellina d’ordinanza
o nasconderlo in miniature di QR code sparse sul bigliettino 8×5.
Me lo hanno chiesto di nuovo e l’ho rifatto. È uno dei miei pochi successi.
Metto insieme l’esperienza professionale, il lato umano,
le aspettative per il futuro, le avventure pregresse, lo sguardo assonnato,
le volte in cui gli ho sentito parlare di dolori alle articolazioni,
di sbronze da Sambuca o di gioiosi week end passati con i figli.
Insomma, creo la ricetta in base agli ingredienti usando come collante la cara, vecchia curiosità.
E ogni volta che consegno il pezzo resto di stucco.
Io sono tramortita dalla paura e loro invece si riconoscono. Sbalorditi, come se si fossero visti per la prima volta.
Straniti, come se si fossero guardati in uno specchio nuovo.
Fotoimpressi dalle parole. Un dagherrotipo di vocali e consonanti.
Ringraziano e se ne vanno contenti.
Perché per mostrare se stessi non hanno più bisogno della webcam,
del FaceTime o del loro ultimo discorso alla nazione su YouTube,
ma soprattutto possono evitare di rimestare nei vecchi album cercando foto
dove i capelli non fossero ancora così bianchi (o ci fossero ancora tutti).
Possono farsi vedere usando, letteralmente, un’altra faccia. Senza sforzo, senza imbarazzo. E senza dover sbiancare i denti.
Ecco. Ho scritto l’ennesima sintesi biografica di un collega.
E sono felice di essere ancora in grado di rappresentare
un intero mondo che fino a quel momento era rimasto senza parole.
Di restituirgli un senso nascosto e miracolosamente autentico.
Sconosciuto agli altri e in parte a se stesso.
Vittima della sindrome dell’uomo dalle scarpe rosse.
La prima volta ho scritto questo post sul retro del cartone di una confezione tripla di mais in scatola. Scoprire quella superficie d’altri tempi, scura ma rassicurante, ha aperto un varco a un bisogno che avevo lasciato a maggese per troppi giorni.
Affrontare un trasloco non è proprio un gioco da ragazzi. È una di quelle verità profane che conosci davvero solo quando ne diventi protagonista, piccolo episodio di un’antica leggenda metropolitana.
Per giorni insegui calzini che si ostinano a vivere l’amore promiscuo delle coppie spaiate, dove né il diverso colore né l’identica posizione dell’alluce possono fermare la volontà di passare il resto della vita insieme. Oggetti, di ogni genere e ordine di importanza, si muovono con libero arbitrio e sfrenato senso dell’umorismo, provocando illusioni ottiche e feroci attacchi d’ira funesta. L’idea di aver dimenticato qualcosa di non ben definito ma decisamente vitale, poi, ti toglie il sonno mettendo a dura prova memoria e resistenza.
In città vaghi cercando un ufficio postale e trovi al suo posto ben tre inutili negozi di parrucchiere per signora e schiere di vecchiette che ti chiedono di insegnare loro l’utilizzo dell’ultima diavoleria elettronica: il citofono con tastierino numerico. Confidi nel fatto che il supermercato più vicino sia in realtà il più conveniente e tieni anche il respiro in modalità risparmio energetico per prevenire ogni forma di ictus giovanile davanti alla tua prima bolletta, che non poteva avere un’iva inferiore al 22%.
Eppure, più di ogni altro conforto e parente prossimo, quello che ti manca è il tuo compagno di sempre. Quel 21 pollici imballato nella sua immacolata confezione d’origine che giace in attesa di giusta e definitiva collocazione. Scrivere su quella candida tastiera ti appare momento unico di pura felicità. Come quelli che comprendi davvero solo quando qualcosa o qualcuno te ne priva, improvvisamente.
La sola idea di un sostituto non elettronico ti appare all’inizio come succedaneo tentativo di saltare il baratro, colmare il vuoto.
Inutilità e tradimento. Fino all’assoluta e incredibile rivelazione.
Quella del cartone del mais.
Ogni cosa svela il suo lato nascosto.
La carta assorbente, le pagine vuote nella guida ai servizi della città, gli angoli bianchi del libretto di istruzioni della nuova lavatrice, il sacchetto dell’ultimo etto di prosciutto e il relativo scontrino. Tutto nasconde una seconda vita, una nuova identità.
I pensieri si liberano. Ogni parola è una conquista.
Ogni superficie diventa lavagna o scrivania. Ogni bugiardino mostra il suo risvolto utile. Ogni penna il suo ultimo alito d’inchiostro. Ogni matita un modo nuovo per essere temperata e ritornare a calcare le scene.
E l’ultimo strappo di carta igienica, quello su cui hai appuntato la lista della spesa, si chiude con un elenco di ordinaria cancelleria. Come se domani fosse il primo giorno di scuola. O la prima scuola di tutti i giorni. Quella in cui ogni forma di scrittura viene dal cuore. E quando arriva bisogna farsi trovare pronti.
Ovunque accada. E senza domandarsene la ragione. Perché la prima regola dello scrivere è scrivere.
Pensare serve sempre, ma viene dopo.
Mentre l’amante del thriller si gode il suo giallo sotto l’ombrellone, dall’altra parte della barricata se ne sta il copy. A prima vista sembra un bagnante in vacanza come tutti gli altri, al massimo con gusti letterari un po’ originali. Però se osservi bene lo riconosci. È quello che oscilla tra momenti di assoluto estraniamento e sprazzi di concentrazione da maestro zen.
È lontano anni luce dal gruppetto degli irriducibili giocatori di beach volley. È sempre munito di crema solare protezione 30 e di occhiali da sole rubati al prop di Blues Brothers – il film. Insomma, è un tipo. Poco da spiaggia, certamente.
Per uno che dice di lavorare mentre guarda assorto fuori dalla finestra, l’orizzonte aperto del mare dovrebbe apparire come un paradiso da brainstorming intergalattico e invece tutti i passatempi estivi, noti al resto dell’umanità come tali, per il copy sono una sorta di palestra.
Un giochi senza frontiere a partecipazione individuale.
Le parole crociate? Una passeggiata di salute per la flessibilità delle mappe concettuali.
I rebus? Un esercizio propedeutico alla comprensione visiva dei rough.
Unisci i puntini? Si, quello è un diversivo. Ma enigmi e anagrammi? Quelli sono giochi da copy.
Puro allenamento per la decifrazione sintattico-stilistica dei brief dell’ultim’ora.
E poi ci si mettono anche gli annunci pubblicitari. Deodoranti, auto, orologi e prodotti di bellezza d’estate vengon fuori su magazine, settimanali e quotidiani, con cariche straordinarie di disinibizione, scongelate dopo l’ibernazione dei mesi più freddi dell’anno.
E giù con le ipotesi sostitutive di head line e payoff.
Insomma, a voler peccare di attenzione, questa roba finisce per essere un piccolo supplizio.
Basterebbe alzarsi dalla sdraio, si può pensare. Farsi semplicemente un bagno.
E invece no. Il nome dello stabilimento balneare stampato in ogni dove è la sfida per un nuovo naming. E il brand inciso in bella vista sui braccioli del bambino che ci ha appena liberato dall’impiccio di testare la temperatura dell’acqua, ha una forma che, cavolo, abbiamo già visto. E ogni bracciata è uno scandaglio nell’archivio mnemonico.
Provateci, se volete, a trovare un confine definito tra il piacere e l’ossessione quando la deformazione professionale tocca la sfera delle parole. Provateci e se ci riuscite, fatemi un fischio, che l’anno prossimo si dividono le spese.
Perché anche i compagni di vita dei copy ci stanno provando. Loro, che sono stati costretti ad abbracciare questo modus vivendi, inconsapevole o inevitabile, come si accetta di riflesso il giuramento di Ippocrate quando si sposa un medico. Perché, sempre loro, si ritrovano spesso a giocare a scarabeo, nelle fresche sere d’estate, con un mojito (un black russian o un martini on the rocks) come unico allegro supporto.
Perché i copy sono delle spugne. Spesso, nel vero senso della parola.
Ma da questo difetto qui, per fortuna, ci si può sempre disintossicare.
Le librerie sono il mio habitat naturale. Come ogni appassionato lettore o aspirante scrittore, immagino. Ma mentre quest’ultimi sono quasi tutti migrati verso le spiagge del self publishing, i primi restano ancorati al sacro odore di carta stampata. In libreria, così, è un po’ come alla stazione dei tram alla solita ora dei giorni feriali. Ci si riconosce quasi tutti. Ci si scambia un sorriso di benvenuto e un cordiale arrivederci. Capita addirittura che ci scappi uno sguardo d’intesa quando il classico è un cult o il contemporaneo una scoperta straordinaria, individuale prima che collettiva.
A piano ferie consegnato, però, avviene un miracolo che sa di folklore. Mentre le metropolitane e le stazioni ferroviarie si sfollano, orde di bagnanti ancora in tenuta cittadina si accalcano in questi ameni luoghi di culto, per l’immancabile ‘libro dell’estate’. Di tutte le stagioni buone per leggere, chissà perché, il non lettore medio attende sempre quella bella per potersi concedere la sua fetta annuale di letteratura. Le condizioni meteoropatiche, è cosa nota, sono decisamente ideali.
Cosi, mentre lo sconosciuto si aggira tra gli scaffali, indeciso come il più accanito seguace di MasterChef davanti alle cinquemila varianti di sugo già pronto, i soliti noti si alternano alle sue spalle come giocatori di poker allenati a barare, senza scopo di lucro. La curiosità raggiunge tassi che l’umidità non tocca nemmeno di striscio. Nell’attesa della scelta, tutti, se potessero, si racconterebbero la stessa storia.
Leggere d’estate. Immagina la scena: il caldo che fora l’ombrellone allo zenit, le pagine che si attaccano al dito -o il dito che si attacca allo schermo (dipende dal grado di affiliazione tecnologica)-, il vicino di ombrellone che ha sempre una storiella divertente da raccontare, i bambini che schizzano acqua salata da direzioni non ancora esplorate dalla rosa dei venti, generazioni di dj che si alternano alla consolle riproponendo tutto il repertorio della disco, dagli anni 80 ai giorni nostri. Chi vuoi che ti accompagni in quest’impresa?
Tutti hanno dato la loro risposta. Dalla donnina che vota per ‘Gita al Faro’ della Woolf al ragazzino che incrocia le dita per il suo ‘Il vecchio e il mare’ di Hemingway.
In religioso silenzio, sorpresi senza volerlo a sfogliare l’ultimo volume per la preparazione ai test d’ingresso di veterinaria, scortiamo con gli occhi il novello avventore fino alla cassa. Ed è così che notiamo un mattone di almeno 800 pagine. Quasi 20 euro spesi per l’ultima mistery story.
Quella più in alto sulle gradinate delle classifiche di gradimento. Quella con a fianco il numerino UNO. Segnale inequivocabile di apprezzamento universale.
Un giallo, classico estivo intramontabile.
Il ragazzino, con un’espressione imbronciata degna dei migliori personaggi dickensiani, si avvicina e con aria indifferente chiosa: ‘Col caldo è chiaro. Hanno tutti bisogno di un brivido’.
Abbasso lo sguardo d’istinto. Per le mani mi ritrovo esempi di letteratura che sfidano tutte le cromie, senza toccare né neri, né gialli, né presunte sfumature.
Sospiro. La mia selezione non conta di andar lontano. È quella di chi immagina un’estate al fresco. Del condizionatore, s’intende.
Tanto l’assassino, si sa, è il figlio illegittimo dell’anziano professore. O no?
‘Perché, in fondo, il problema non è leggere Novella 2000. Il problema è leggere solo Novella 2000.’