L’evoluzione della special guest star.

Gli imprenditori-testimonial dal raviolo allo gnocco bollito

Insomma, non siamo mica tutti Fastweb con George, che ha rotto le balle per almeno una decade esigendo privacy attorno alla villa sul Lago di Como manco avesse una piantagione di marijuana nell’orto e ancora quando spiccica due parole in italiano sembra stia tentando di articolare uno slogan con la bocca piena di Bostik. C’è la crisi e allora la pubblicità facciamocela in casa: non serve pagare un personaggio famoso, basta una faccia bella, pulita, che fa tanto garanzia-di-qualità-e-tradizione e dà valore aggiunto al marchio.

La galleria dei faccioni imprenditoriali accampati tra uno spazio pubblicitario e l’altro è sempre più affollata ma, seppure nel marasma, resta impossibile non notare un’evoluzione della specie.

Ma procediamo con ordine. La mia vita da spettatrice pubblicitaria ha visto splendere tre astri dal bagliore più accecante degli altri:

Roberto Carlino

In principio era l’ossessione notturna da intervallo del Maurizio Costanzo Show. Nel corso degli anni ha cambiato al massimo colore di fondotinta: completo, ufficio e slogan hanno resistito alle ingiurie del tempo. Poco da fare per la pelata che non gli ha comunque impedito di girellare sulla sua poltrona con le rotelline, proprio lui che, per antitesi, dall’alba dei tempi vende solide realtà. Negli ultimi anni è stato affiancato da una ragazza (la sua fidanzata? La nipote che sta cercando di spodestarlo? Una modella piantata là ad cazzum per evitare il cambio di canale?) ma è stato tutto inutile: il suo incarnato è lunare e, nonostante la cartellina da segretaria sexy, non riesce a far distogliere lo sguardo dal magnate del settore immobiliare italiano. Uno che venderebbe un appartamento anche ai pastori nomadi della Mongolia.

Francesco Amadori

Bello lui. Non ha bisogno di sparare sofismi, con quell’espressione bonaria (un incrocio tra un pechinese e il vicebrigadiere Bordi della fiction Carabinieri) fa subito nonno di campagna. Quando poi ti dice ridacchiando “parola di Francesco Amadori” – che pare quasi ti stia prendendo per il culo sottintendendo “io non ho mai visto una gallina in vita mia, mi sono solo infilato un pullover osceno e la camicia sotto a quadri per vendere meglio i surgelati”-, cadi subito vittima di una visione stile Giovanna d’Arco, solo che al posto della voce di Dio senti l’orchestra di Raoul Casadei e vorresti entrare nello schermo per mangiarti, che ne so, una bella piadina insieme a lui (probabilmente sto facendo un pout pourri di stereotipi appartenenti a zone diverse dell’Emilia Romagna ma mi perdonerete, non sono della zona). Altra pelata eccellente ma tanto non hai il minimo dubbio sul fatto che sua moglie sia una tipa sprint, alla Orietta Berti, che tra un sopracciglio tatuato e l’altro troverà anche il tempo di passarci la cera d’api per dare lucentezza alla capoccia. Ora che ci penso, per anni ho pensato che Osvaldo – celebre quanto invisibile marito della cantante – avesse le sue sembianze. Non sono mai andata a verificare per non farmi crollare il mito.

Giovanni Rana

Ora attenzione perché questo è un pezzo da novanta (anzi, se continua di questo passo rasentiamo la quintalata). Giovanni Rana è un’istituzione, non si può pensare di separarlo dai suoi tortellini. Ma proprio in senso fisico: provate voi a spiccicarlo dalla spianatoia e dal rasagnolo; secondo me anche di notte veste un pigiama a righe con cucito sopra lu zzinàle (il grembiule, per chi non è umbro). Adesso sono riusciti finalmente a farlo fuori ma resta ad ammonire le ignare atlete che s’ingozzano con i ravioli Gioiaverde con la propria voce fuori campo, come a ribadire che in ogni caso il protagonista indiscusso di ogni spot è sempre lui.

Un uomo che mantiene magistralmente la main promise che incarna: lui si chiama Giovanni Rana e in effetti le fattezze sono quelle di un bel rospone simpatico; fosse un cartone animato avrebbe sicuramente un cilindro e un papillon e suonerebbe musica jazz in uno stagno (una magnifica idea di product placement che potrebbe bene applicarsi a Gli Aristogatti, per esempio, in modo da accaparrarsi un pubblico sempre più ccciòvane).

Canuto ed occhialuto, l’ultimo membro della Triade della Pelata avrà costruito un impero ma non ci pensa nemmeno a mandare avanti qualcuno più aitante, vuole spiegarti lui per filo e per segno come stende la sfoglia, cosa ci va dentro e come questa trattiene bene il sugo e alla fine sei così rimbecillito che riesce a convincerti che i nomi assolutamente banali dei suoi prodotti siano il non plus ultra della scrittura creativa, perché se non altro non mentono (c’è sempre la parola “sfoglia” con un aggettivo vicino).

Poi in un tiepido pomeriggio d’inizio settembre mi esce fuori Fabio Esposito. Che per chi se lo domanda, è lo stilista-testimonial del marchio Coconuda. O meglio, esce fuori ben prima ma fino a quel momento io ho immaginato solo che fosse il modello belloccio ingaggiato da qualche lungimirante responsabile del settore vendite per abbindolare il target che si sorbetta la fascia pomeridiana di Maria De Filippi senza quasi battere ciglio. Invece no, è proprio lui l’imprenditore, lui che si arruola volontario per la promozione sul piccolo schermo di una delle aziende di famiglia.

È dunque questa l’evoluzione del testimonial? Dal fondotinta alla matita sugli occhi, dai ravioli allo gnocco lesso, da coccodè a Coconudina? Questo, infatti, il nome della nuova linea di abbigliamento per bambine. Cosa si sta promettendo alle mamme che acquisteranno quei capi, uno stuolo di figlie smutandate prima ancora di entrare nella pubertà?

Sarò sincera, nel caso il bel Fabio ricopra anche il ruolo di copywriter ad interim lo sforzo di creatività in sé è apprezzabile (È figlio di un Antonio Esposito, un nome che è la risposta meridionale al Mario Rossi nazionale, un papabile vincitore del Festival dell’Omonimia) ma da addetta ai lavori mi convince poco. Vuoi metterci la faccia? Vabbuò Fabbiè; la testa però falla mettere a qualcun altro in famiglia.

Ma se ha la pelata, allora guardati le spalle.

 

Per Commenti, altri esempi illustri del Club della Pelata e Querele, potete scrivere qui sotto.

Sgrammaparade: errori e orrori di scrittura.

Sgrammaparade: errori e orrori di scrittura.

Quando scrivere è la tua ragione di vita diventi particolarmente inflessibile verso chi abusa delle sempre più tollerate sgrammaticature. La correttezza grammaticale diventa un dogma al punto da costituire una condizione necessaria e sufficiente per l’interruzione di conoscenze o rapporti, specie in campo amoroso. Ma sì, diciamolo fuori dai denti e in modo che lo capiscano anche le capre: ai copy non piacciono le persone che parlano l’itagliano, questo curioso idioma che imperversa soprattutto sulle povere bacheche social e negli interminabili carteggi da smartphone.

(Come dici? Ti piacciono? Non sei abbastanza snob.

Sei molto snob e ti piacciono lo stesso? Allora non sei un vero copy; delle due, una.)

Leggere strafalcioni scribacchiati sui muri fa ridere, d’accordo, ma solo quando non ti riguardano da vicino. Nel momento in cui quell’UFO linguistico attraversa l’etere e compare tra i tuoi messaggi personali inizi a sentire da lontano lo straziante violino di Frankenstein Jr e sai già come andrà a finire la storia: con l’epurazione del soggetto sgrammaticante, che per tutta risposta sfodererà citazioni al livello di Tre metri sopra il cielo oppure s’imbufalirà accentuando la possibilità di commettere errori nella foga di dar voce al proprio orgoglio. Una strage per i tuoi occhi.

Quest’oggi voglio stilare una classifica delle sgrammaticature che mi mandano di più in bestia, perché è ora che tu (sì, proprio TU, povero illuso che almeno una volta nella vita hai pensato di broccolarmi con quattro frasi concordate tra loro quanto un incidente stradale) ti senta in colpa per avere ucciso tante innocenti parole del dizionario lordando i miei spazi pubblici, fisici e virtuali.

Ne ho individuate 7, come i peccati capitali:

  • K kome se piovesse

L’unica parola che io ricordi di aver scritto con la kappa alle elementari era “koala”. Toh, “kiwi”, volendo abbondare con l’esotico. Poi sono arrivati l’inglese e il tedesco mentre nel frattempo sul mio diario diventavano sempre più rade le adolescenziali scritte “tv1kdb”. Superate queste esperienze altamente formative sarebbe meglio, almeno in lingua madre, finirla con questo incrucchimento del parlato; fa veramente bimbominkia (con la k, per l’appunto).

  • Le abbrvz

Capisco che ci sia crisi e che i messaggi abbiano il loro costo (faccio mea culpa, contraevo anch’io le parole fin quando mia madre ha monitorato il flusso di credito in uscita dal mio “cell”) ma quando hai a disposizione uno spazio gratuito su cui scrivere, ti prego, sforzati di inserire tutte le lettere. “Grz”, “cmq” e compagnia bella mi fanno subito capire che: A) sei un taccagno che preferisce risparmiare un messaggio invece di adularmi poeticamente come si deve B) potresti anche aver digitato tasti a caso o un estratto del tuo codice fiscale, tanta è l’incomprensibilità della sigla, ergo non stai dedicando il 100% del tuo prezioso tempo a pensarmi mentre mi scrivi (perciò che mi faccio broccolare a fare?).

  • Le migliori intenSioni

Una categoria in cui lo scivolone è sempre in agguato. Fammi capire una cosa: quando mi scrivi “ansiani” intendi una fantomatica popolazione umana particolarmente incline all’agitazione? Se la risposta è no dai una controllatina al dizionario online prima di scrivere alla prossima disgraziata “forze” per esprimere incertezza. Per dirla alla tua maniera, imbocca all’upo.

  • Se io farei

Mi dispiace, non posso farcela. Il periodo ipotetico sbagliato è una cosa che mi fa sanguinare le orecchie. Posso avere davanti anche Dante Alighieri, la mia faccia si tirerà subito in un sorriso mefistofelico e sibilerò “facesssssssssi”, con all’incirca trentadue esse. L’itagliano medio si ferma a tre tempi: presente, futuro semplice, passato prossimo. Che rispecchia più o meno la durata di un’idea nella sua testa.

  • Esclamazioni

Il paese delle meraviglie. La necessità di riportare nella scrittura la spontaneità di un’esclamazione partorisce oscenità che da parte mia non sollevano nemmeno obiezioni, sei ignorante e te lo tieni. Cominciamo dalla sovrapposizione verbo-esclamazione: vuoi ridere? Si scrive “A-H”, con l’acca dopo, non “H-A”, a meno che tu non voglia che io scambi un tuo scoppio di ilarità con un misterioso “possiedepossiedepossiedepossiede”. Stesso discorso per l’“EH”: ti stai chiedendo cos’è questo mostro? Quello che tu rendi con un magnifico verbo essere, pertinente alla frase come un cotechino nella paella. “Bello, è?” non è grammaticalmente accettabile, nemmeno se sei sardo. Lasciamo perdere “BHE” che io non capisco nemmeno come possa venire in mente. Che suono ha il BH? Aspirato, alla calabrese? Una b moscia, sulla scia del TH inglese? Ma come fa ad esistere in italiano?? (Basta inveire, ho la schiuma alla bocca come i personaggi delle novelle di Verga).

  • Lo sò, si fà

La sagra dell’accento messo alla pene canis. So che stai esprimendo una pronuncia corretta ma sappi che la nostra lingua non prevede l’accentatura delle vocali ambigue all’interno di una parola  (e e o, che possono essere aperte o chiuse) e che in generale i verbi al presente non hanno accenti; l’unica eccezione usata che mi viene in mente è “egli dà”. Al contrario, il futuro semplice ha l‘accento sull’ultima vocale, quindi “io faro”, a meno che tu non sia un gigante con in testa una luce che vive in prossimità dell’acqua salata, non ha ai miei occhi alcun significato. Arrivederci e grazie.

  • Non capire un’acca

Che tu commetta uno dei sei errori precedenti io posso in qualche modo arrivare a comprenderlo e, sebbene con un po’ di fatica, perdonarlo ma non distinguere il verbo avere da una preposizione semplice vuol dire che a scuola come nella vita (e soprattutto nella scelta di broccolare proprio la sottoscritta) tu non hai capito proprio niente. Un’acca, per la precisione. “Vado ha casa” e “tu ai detto” toccano l’apice della Sgrammaparade; puoi anche essere Raoul Bova ma non appena raggiunta la consapevolezza che continuerai imperterrito a riempirmi di obbrobri del genere ti saluto e vado a parlare a geroglifici con una mummia egiziana, che faccio prima.

Non rimanerci male, non è colpa mia; sei tu che sei sbagliato. Anzi, che HAI sbagliato.

Se sei stato/a vittima di persone dalla sgrammaticatura molesta sentiti libero di condividere la tua esperienza; non risolve di certo il problema, però aiuta.

Se invece sei affetto/a da schizofrenia grammatica sapp che una cura esiste: dai un senso alla polvere della libreria e leggiti quei libri.

A patto che tu ce l’abbia una libreria in casa. Con dei libri.

Savoir faire dal coiffeur

Savoir faire dal coiffeur

Non essendo unicamente ciò che facciamo, la scrittura non basta da sola per comunicare al mondo noi stessi, neanche se siamo copy. Le mondane vanità non risparmiano le nostre testoline sempre in febbricitante attività o sotto stress per le consuete consegne a stretto giro, e forse proprio per questo c’è chi è incline a calvizie e canizie piuttosto precoci.

Tralasciando il primo problema – non per indole femminista ma perché, collage a parte, poco c’è da fare – i capelli bianchi non sono mai una bella scoperta. Sì, sul creativo stagionato ma ancora competitivo possono anche essere considerati un toccasana per l’appeal ma nella copywriter over -enti non ancora approdata agli -anta non suscitano altrettanta soddisfazione.

Esempio.

copy: “Ommmmioddio mamma, guarda!”

mamma della copy: “Che cosa?”

copy: “HO UN CAPELLO BIANCO!”

mamma: “Io non vedo niente!”

copy: “Ci credo, se non metti gli occhiali!… Adesso?”

mamma: “Ma nnnooo, non è bianco: è biondo. Tu sei nata bionda e adesso ti tornano fuori i riflessi naturali.”

La stretta necessità di copertura del bianco crine non esaurisce però la casistica femminile: c’è anche chi semplicemente non si piace al naturale e vuole sperimentare colori diversi che la facciano sentire unica giorno e notte, anche in pigiama. Anche questo problema non sempre incontra la comprensione del mondo circostante.

Altro esempio.

copy: “Domani voglio andare dal parrucchiere, voglio cambiare colore.”

papà della copy: “Ma io non capisco, che bisogno c’è di cambiare colore?? Perché devi iniziare a tingerti prima del tempo?”

copy: “Non posso cambiare colore solo perché mi va?”

papà: “Quelle che si tingono i capelli mi danno sempre l’idea di essere donne insoddisfatte…”

copy: “… Eh, allora?”

Per alcune di noi una decisione così è già difficile prenderla, non ci aspetteremmo mai di trovare degli ostacoli proprio lì, nell’Eden delle colorazioni permanenti. Partiamo da casa con la testa infarcita d’immagini sfavillanti di attrici e modelle con tinte mozzafiato e descriviamo attingendo al nostro vocabolario cromatico la nuance che ci sembra più adatta al nostro incarnato oppure allo stato d’animo del periodo. Ma, ahimè, il coiffeur non ha una familiare mazzetta Pantone da farci scartabellare, non c’è un codice univoco per cui il colore che gli comunichiamo di voler esibire in giro sarà quello che poi lui applicherà alle nostre ignare chiome. O meglio, il codice esiste ma non è lo stesso con il quale noi identifichiamo i colori nella realtà.

Nella palette del parrucchiere è possibile ravvisare una discrepanza agghiacciante tra parole e suggestioni visive; a scanso di equivoci la illustrerò con le nozioni base da scatola da 12 di colori a spirito.

Castano = quasi nero. Per ottenere ciò che considerate banalmente MARRONE dovreste dire piuttosto “cioccolato”, specificando poi quale particolare sfumatura del suddetto gradite. Al giorno d’oggi c’è al latte, fondente, con le mandorle, al peperoncino e chi più ne ha più ne metta; non si capisce bene se una la tinta debba mangiarsela tentando il suicidio o annusarla per non mettere a repentaglio la linea con degli spuntini ipercalorici.

Caramello = quasi cioccolato (vedi sopra). Pensi di diventare leggermente più scura del rame e invece hai i capelli MARRONI, un’altra volta. E per la cronaca, con il termine “rame” io intendo un color carota, ARANCIONE, non il verde dei capelli del salame che piangeva sconsolato nella canzone di Battisti.

Mogano = se avete i capelli marroni scuri ma non esattamente neri, la sfumatura rossa che assumono quando siete al sole; punto. La sottoscritta ha riversato in una confezione di tinta tutte le speranze di una sé diversa per poi scoprire tre ore dopo il trattamento di aver pagato per riprodurre artificialmente il suo colore naturale, preciso identico. Volete una sfumatura sul prugna, più VIOLA? Il “nero ciliegia” è quel che fa per voi. Ma mi domando: perché inserire nella dicitura il nero? Sarà mica una ciliegia marcia? Andando a cercare casi analoghi in Natura esiste in effetti una particolare qualità di uva nera (che non è neanch’essa nera, è più sul viola scuro) da cui si ricava un vino chiamato Bordeaux. Ora però avvalorare le definizioni di gente esposta ad esalazioni d’alcool per combinare poi danni sulle teste delle clienti non mi pare cosa.

Rosso = ah ah ah, ma che vuol dire “rosso” da solo se non ci metti una parola dopo?

Biondo = ma sei scema?

Nero = ammazzati.

Un appiglio empirico può essere decidere il destino della propria capigliatura osservando il campionario di ciocche: una tristezza epica. Anche perché ci fosse una volta che quei poveri mucchietti di peli assomiglino a colori di teste che vedete a spasso. A forza di ipertecnicismi come “più chiaro” o “più scuro dell’altra volta” i cambiamenti che otteniamo sono o drastici o minimi, forieri della medesima ineluttabile frustrazione. Almeno fino al prossimo shampoo.

 

(Un particolare ringraziamento a Laura Grazioli, Elisa Gattamorta e alle mie tinte nero ciliegia, inconsapevoli muse ispiratrici di questo post.)

Giovani Leoni crescono.

A metà marzo mi sono imbarcata in una delle avventure creative più interessanti che mi siano capitate: un contest lungo 24 ore. Una maratona da correre in coppia, art e copy under 28, scegliendo tra le categorie Film, Cyber, Print e Design la più idonea alle proprie inclinazioni. Premio in palio: la possibilità di rappresentare l’Italia al Festival Internazionale della Creatività di Cannes con tanto di viaggio a spese della Sipra, organizzatrice del concorso insieme ad Art Directors Club Italiano (ADCI), Assocom e Getty Images. In due parole, Giovani Leoni.

Non voglio prendermi il merito di tanta audacia, galeotta è stata la rete. Grazie al passaparola ho scovato un giovane art che cercava disperatamente una metà creativa per poter partecipare al concorso: Marco Lari, classe 1987, montevarchino in trasferta a Bologna. I requisiti una volta tanto ce li avevo tutti, quindi sono andata ad informarmi sul soggetto. Il talento c’era, così mi sono detta: “perché no?”.

Due mesi dopo, superata l’adrenalina pre-concorso, la stanchezza delle 17 ore di lavoro quasi non-stop per consegnare in tempo, i dubbi sull’andare o meno alla premiazione a Milano, la mancata vittoria e la scia di contestazioni, mi ritrovo a contattarlo su Skype per fare insieme il punto della situazione. Lui parla, io ascolto: come ogni coppia creativa siamo complementari e se lui a voce dà il meglio di sé io ho bisogno di meditare e di mettere tutto nero su bianco.

giovani leoni marco lari serena agneletti

io (copy) e Marco Lari (art)

Da Leone a Leone, il copy intervista il suo art.

Cominciamo dal principio: Giovani Leoni. Perché hai deciso di partecipare? 

Sono venuto a conoscenza del concorso in agenzia, me ne hanno parlato il mio direttore creativo, Roberto De Martini, e la copy, Laura Grazioli. Mi è sembrato un progetto interessantissimo, una bella opportunità anche per due ragazzi senza grandissime esperienze alle spalle. E poi la possibilità di fare un viaggio, un’esperienza nuova… Insomma, il concorso valeva il biglietto!

Quindi il tuo obiettivo era proprio Cannes.

Sono sempre stato un po’ competitivo, è un lato del carattere che mi influenza anche nel lavoro: quando partecipo ci metto tutto me stesso. Anzi, forse anche due me stessi, pur di raggiungere il mio obiettivo.

Non si poteva partecipare da soli, serviva per forza l’altra metà creativa. Tu eri senza copy… Come hai affrontato questa situazione?

Inizialmente mi ha un po’ spiazzato. Mi aspettavo di trovare un copy nel giro di pochissimo tempo, invece non ci sono riuscito nonostante la mia ricerca e l’aiuto di Laura… Poi grazie a Daniela Montieri, sempre del “gruppo copy” – ormai lo definisco così – abbiamo trovato te che…

Momento sviolinata, ok. Ma come te l’immaginavi la collaborazione con un copy che non conoscevi? Che aspettative avevi?

L’aspettativa era quella di poter collaborare con una persona che sapesse fare il proprio lavoro, dato che per il mio non c’erano problemi. Potrei sembrare un po’ spavaldo ma sentivo di poter vincere e il copy era la figura che mi avrebbe dato una mano in questo. Penso di aver trovato quello giusto, il lavoro in team è andato bene.

Lavoro in team ma a distanza: dimmi almeno un pro e un contro di questa modalità.

Il contro è non essere nello stesso luogo nello stesso momento. Skype va bene però il contatto diretto con l’altra persona nel nostro caso avrebbe aiutato e soprattutto velocizzato il tutto. Il pro è che, occupandoci l’una della parte scritta e l’altro di quella tecnico-artistica, ci siamo concentrati di più sul nostro lavoro.

Questo ha anche aumentato la tensione e amplificato la nostra percezione dell’evento: personalmente sapere di avere poco tempo a disposizione, di non potermi girare e parlarti immediatamente, mi ha caricato di senso di responsabilità, di volontà di far presto e bene.

Certo, volevamo impressionarci positivamente a vicenda, dimostrare che tutti e due eravamo dei professionisti; probabilmente perché prima di questa occasione non ci conoscevamo nemmeno.

Insieme abbiamo deciso di lavorare sul design.

Sì, ho spinto tanto sul design. Mi sarebbe piaciuto anche il print (se non avessimo lavorato al telefono avrei provato a portarlo a termine come secondo progetto), però i loghi mi hanno sempre appassionato, divertito, sento di andare sul sicuro. In un progetto in cui si hanno solo 24 ore non è poco.

Hai detto che sei competitivo. Se dovessi esprimere un voto sulla giornata del 6 aprile, quanto ti è piaciuto gareggiare da 1 a 10?

Alla gara in sé e per sé darei sicuramente un 8. L’esito finale abbassa la media, però diciamo almeno un 7,5 generale. 8, via! È un’esperienza che mi ha fatto crescere dal punto di vista creativo. Oggi più che mai bisogna essere veloci e bravi in questo lavoro, quindi quale prova migliore?… Gli avrei dato 10 se avessi vinto!

E ti pareva! Scherzi a parte, è cambiato il tuo modo di lavorare nel quotidiano?

Lavorare non per domani ma per ieri era un metodo che avevo già acquisito, farlo in vista di un obiettivo così importante mi ha fatto capire che certe volte devo fermarmi a riflettere invece che incaponirmi nell’andare avanti.

Una cosa bella e una cosa brutta che ti ha lasciato questa esperienza.

La cosa brutta – tu mi ci trovi subito! – è che non abbiano seguito del tutto il regolamento; non voglio dire che il lavoro che ha vinto non fosse meritevole, anzi, ma avrei preferito un po’ di chiarezza in più. È comprensibile che con i tempi e gli impegni che ha l’ADCI non possa stare dietro a tutto, però così come posso migliorare io potrebbero farlo anche loro a livello di organizzazione. La cosa bella è stata la collaborazione art-copy da pubblicità “vecchio stampo” per un progetto così veloce da fare e così bello come un logo, che per me rappresenta la sintesi del lavoro-tipo di un graphic designer. Mi piace che questo sia il mio pane quotidiano, a prescindere dalle sconfitte o dalle vittorie.

Quindi è un’esperienza che consiglieresti.

Sicuramente, è un’esperienza da fare.

Sai sintetizzare con qualche aggettivo la serata di premiazione e le sensazioni che hai provato?

È stato bello arrivare al Museo della Scienza e della Tecnologia a Milano e trovare all’ingresso tante persone ad accoglierci, come fosse un gran galà. Presentatrice, presidenti di ADCI e Sipra in sala; tutto molto ufficiale. Sono partito con i piedi per terra ma ero lo stesso un po’ ansioso; anche solo essere lì e sperare di essere fra i prescelti mi ha emozionato tantissimo.

A mente fredda hai cambiato idea sul progetto? Ti è capitato nei giorni seguenti di riguardarlo con occhi diversi e pensare che qualcosa si poteva fare diversamente?

Il logo mi piaceva un sacco, ne ero entusiasta; con il senno di poi avrei forse messo ancora di più l’accento sull’idea alla base, secondo me non era per niente scontata. La spiegazione scritta da te dava un input in più, un plus a tutto il lavoro grafico.

Progetti futuri?

Guardando al presente mi trovo benissimo dove sono. In futuro vorrei continuare – sempre più convinto di aver preso la strada giusta – a fare il lavoro che più mi diverte e mi appassiona; realizzare qualche progetto importante puntando sempre più in alto, per soddisfazione personale e perché mi piace tanto, questo lavoro. Devo sfruttarla questa fortuna, se uno fa un lavoro che gli piace secondo me ce la deve mettere tutta. E poi è giusto rimettersi in gioco, quindi non sarà l’ultima volta che parteciperò a un concorso. Bisogna rimettersi in gioco sempre, l’ho fatto con altri lavori e continuerò a farlo anche ora.

 ……

L’intervista finisce qui. A registratore spento continuiamo per un po’ a chiacchierare, finiamo a parlare di film e dalla top list di Marco escono fuori titoli inaspettati: Il favoloso mondo di Amélie, Billy Elliot, The Beginners; tutte storie che, a ben vedere, hanno al centro personaggi che rompono gli schemi e seguono caparbiamente la propria strada. Lui non è da meno, è per sua stessa ammissione “un super-sognatore con la testa tra le nuvole fin dalle elementari” e per dimostrarmelo mi racconta di quella volta che, alle prese con un tema, decide di svolgerlo come gli riesce meglio: disegnando fumetti. La maestra, invece di mettergli una nota, gli consiglia di intraprendere degli studi artistici; qualche anno più tardi, all’Istituto d’Arte di Firenze, Marco capisce che non essere bravissimo con le parole o non impazzire per le scienze non è un problema. Ed è proprio quella maestra la prima persona che chiama quando, qualche anno dopo, si aggiudica una borsa di studio di quattro mesi in America partecipando ad un concorso scolastico. La parola “concorso” forse lo riporta al presente, ai Giovani Leoni, gli si accende una lampadina in testa e ripensando al suo tema a fumetti conclude: “In fondo, ho vinto la mia vera sfida quando ho infranto le regole. Non posso essere fiscale con chi ha fatto altrettanto”.

Parole brute: una torbida storia di copywriting e design.

La casa (molto) ideale di una copywriter.

Parole brute

Ogni tanto capita ancora che una copy si decida a metter su casa. Una sistemazione di ripiego, non certo il terracielo in campagna a due passi dalla città ricavato da un vecchio capannone dismesso, miracolosamente non radioattivo, tutto legno vetro e cemento che sognava tra un payoff e l’altro. Il gruzzolo che stringe speranzosa tra le mani non proviene da un conto rimpinzato a dovere, è piuttosto il sudatissimo frutto della rinuncia all’arte – e all’art, distacco assai doloroso – per un lavoro in azienda con mensile fisso che consenta di varcare, non solo con l’immaginazione, la soglia delle quattro settimane.

Insomma, è un evento epocale. Un’unica sede per un rapporto stabile e di mutua fiducia con una persona che non ragioni necessariamente in formato .ai, .psd o .jpg non è affare da poco. Ma le insidie sono nascoste in ogni angolo e se anche voi come lei siete alle prime armi fareste meglio a leggere.

Per trovare una mattonella o un divano di suo gusto la copy partirà con metodo scrivendo sull’amato Google la chiave di ricerca più sintetica e specifica ma non appena vedrà materializzarsi tessuti, cuscini e pattern si dimenticherà di controllare l’ultima ma importantissima riga dei brevi testi illustrativi: quella relativa al prezzo. Inizierà così a vagheggiare un salotto colorato, in perfetto ordine e con mensole ridotte all’essenziale per la casa che diventerà il suo studio, fonte inesauribile di energia ed ispirazione; un posto bello, dove non dover passare tutto il tempo libero a spolverare, tanto nel giro di dieci secondi il pulviscolo si rideposita ineluttabilmente ovunque.

Ma quella roba se la potrà davvero permettere? Chi o cosa è la causa del suo distacco dalla realtà? Le bodycopy emotive ovviamente, che fanno leva sul suo dannato bisogno di circondarsi di cose belle, lineari e funzionali senza rinunciare ad un tocco di originalità.

In ogni caso l’illusione dura il tempo di pochi click, la realtà non aspetta altro che mettere a dura prova la copywriter innamorata della sua casa ideale; gli addetti vendita la sfideranno, ancor prima che a colpi di euro (battaglia persa in partenza a meno che non ci si chiami, che so, David Ogilvy) sul duro terreno delle parole. Proprio loro, solitamente così care e inoffensive, alla prima occasione di compravendita sono capaci di trasformarsi nelle brute della situazione.

Iniziamo con cose semplici tipo laminato laccato: per la copy ignara è una definizione che sa di metallo e astronave, scoprirà solo dopo molti preventivi che si tratta di legno non meglio identificato appiccicato a supporti apparentemente super-moderni al fine di creare mobili e sportelli che non sembrino di legno.

C’è poi l’insidiosa pietra sintetica, che solo a sentirne il nome sembra l’unico piano di lavoro possibile in cucina: ci si potrà tagliare di tutto, appoggiare pentole incandescenti e accogliere sorridendo qualsiasi cataclisma… Ma andando a stringere è solo sinonimo di mille euro in più sul prezzo finale della composizione. Volete ricoprire con della pietra sintetica una posata? È uguale: sono m-i-l-l-e-e-u-r-o-i-n-p-i-ù.

E ancora il buono d’acquisto, scivoloso e obliquo nella sua promessa di rimborso pari all’importo speso per l’acquisto successivo: infatti non può essere consumato in una sola volta, copre al massimo il 30% del costo e dura in tutto tre mesi.

Menzione a parte per il top di gamma: definizione che TUTTI i progettisti di TUTTI i negozi di arredamento avranno la faccia tosta di appioppare a qualsiasi cosa giustificandone il prezzo esorbitante, anche una mensola di legno brutta e storta. Davanti a un affronto simile vi consiglio di non obiettare nulla se non volete passare per spilorci ma potete sempre intavolare il seguente dialogo mentale con il malefico intermediario:

“Perché questi mobili squadrati e di un solo colore sono considerati top di gamma?”

“Semplicemente perché piacciono.”

“Non sarebbe più logico definire top di gamma un armadio antico, tutto in legno massello, finemente lavorato e dalle forme particolari?”

“Spiacente baby, è il mercato: adesso vanno le soluzioni componibili e colorate e se il tuo peccato è desiderarle non hai scampo, devi pagarle un occhio della testa.”

“E perché, di grazia?”

“Per i costi di produzione!”

“Ma sono degli stupidi rettangoli senza maniglia, dove sono i costi di produzione?”

“Ma come! È proprio IL FATTO CHE NON CI SIA LA MANIGLIA che innalza il prezzo! Tagliare tre centimetri di sportello in meno e ricavare uno spazio dove infilare le dita, ecco IL VERO LUSSO!”

Che quella del top di gamma sia una fanfaronata lo dimostra l’ultima parola coniata in fatto di design: shabby. Per intenderci, lo stile dei piatti dipinti a mano di vostra nonna o della credenza rustica che tanto piace ai vostri genitori; cose categoricamente escluse dall’arredamento dei vostri sogni fin dall’età di sei anni ma che, essendo diventate vintage (altro termine infernale che non ha niente a che fare con le pin-up, vuol dire solo “vecchio di almeno vent’anni”), non solo sono trendy ma vi svuotano il portafoglio. La dicitura completa è shabby-chic. così anche un tavolaccio che a vederlo sembra si regga con lo sputo può costare l’equivalente di un rene, senza pensieri.

Insomma, le parole ingannano e lo fanno anche con chi vuole loro più bene; parola di copy con il brutto vizio dell’arredamento immaginario. E che, senza offesa, preferisce pensare di andare a vivere con qualcuno invece di convivere e dire che il suo ragazzo sta mettendo a posto un piano libero di casa sua invece di rassegnarsi al fatto di abitare sopra i futuri suoceri (che dico, i genitori del suo ragazzo!). Che brute parole.

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