iPhonia vs eufonia.

Schermata 2014-09-14 a 16.09.36Difendo Apple.

Un grande brand trova sempre le parole giuste.

“Molto più che più grande”: si apre così la presentazione del nuovo iPhone6. Cinque parole cui è stato affidato il compito di introdurre nella provincia mediatica italiana l’ultima versione del device più desiderato. Un’headline accolta in rete con commenti al vetriolo. Niente di cui stupirsi. I social favoriscono la critica a oltranza; la fame di like è un propellente formidabile per il motore dell’invettiva. Prima o dopo un giro sulla macchina dell’esecrazione lo facciamo tutti: chi sceglie di dare al proprio io una dimensione digitale condivisa sa che fa parte del gioco.

Non sono tra coloro che si sono schierati contro quei ventuno caratteri Myriad (sì, ho contato anche il punto). A mio parere non ci sono altri modi per dire nella nostra lingua che le caratteristiche innovative della sesta generazione iPhone non si limitano all’aumentata ampiezza del display. Certo, “Bigger than bigger”, l’head che accompagna il lancio nei paesi anglofoni, asfalta la versione italiana, ma rilevarlo non ha senso perché la lingua di Shakespeare e Bernbach permette di attribuire alla frase sfumature semantiche che nell’idioma di Dante e Pirella, facendo una traduzione letterale, andrebbero volatilizzate. “Più grande di più grande”, al netto della forma infelice, circoscriverebbe il significato alle dimensioni del prodotto, mentre Apple intende comunicare che il suo ultimo smartphone, oltre a essere più grande, ha molto di più.

Ovvio, “Molto più che più grande” è appesantita dal doppio avverbio, ma bisogna considerare che la ridondanza fa parte dell’espressività a volte sovraccarica che è legittimo attendersi dal linguaggio pubblicitario, altrimenti per persuadere il consumatore basterebbe dire “Compra!”. Dirò di più: secondo me chi ha ricevuto l’incarico di tradurre in italiano la comunicazione di iPhone6 ha voluto rispettare anche un principio di simmetria. Frase simmetrica “bigger than bigger”, frase simmetrica “Molto più che più grande”, con la congiunzione a fare da “asse fonetico”: basta contare le sillabe.

Poca creatività, qualcuno ha osservato. Può starci, ma si tenga presente che la formulazione in inglese, semplice e chiara, esige un adattamento in italiano altrettanto limpido. E non è che con la mela di Jobs puoi fare quello che ti pare. Sotto c’è l’invito a pensare diverso, ma se lavori per i ragazzi di Cupertino, giustamente, devi fare uguale a come ti dicono. Certo, “Molto più che più grande” è una frase a ostacoli, le manca lo slancio fluido dei cento metri. Non suona bene insomma. Anche i volti dei ritratti cubisti però sono pieni di spigoli: è una scelta stilistica. E comunque, visti i presupposti, le limitazioni e le esigenze comunicative ineludibili credo si possa andare oltre. Per quanto mi riguarda scelgo di mettere momentaneamente da parte l’eufonia e accogliere l’iPhonia. È anche un modo per rispettare il lavoro altrui.

 

 

Fonte immagine: www.apple.com/it/

La grande bellezza e Fiat. L’auto-celebrazione che mi piace.

L’Oscar di Sorrentino, ovvero chi diffida del suo successo e non vorrebbe che festeggiasse alla guida di una 500.

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“Fiat 500. La piccola grande bellezza”. Recita queste parole Paolo Sorrentino nello spot di una delle icone automobilistiche italiane. E dice il vero. L’auto è bella, un’utilitaria che manda in cambusa a pelare patate non poche ammiraglie. Oltre duemila anni di mani e menti peninsulari capaci di ridefinire ciclicamente i princìpi della creatività a qualcosa sono serviti. Da alcuni la Fiat ha ripreso a fare auto come si deve. E a comunicarle come si deve: se ho comprato una Fiat è anche perché la brochure del modello che ho scelto presenta argomenti convincenti; non è fuori luogo dirlo in un blog di persone che scrivono per la pubblicità.

Che il protagonista della pubblicità della 500 sia un talento del cinema fresco di statuetta non è un dettaglio. La sua ultima pellicola, La grande bellezza, premiata dapprima con il Golden Globe e poi con l’Oscar, entrambi assegnati al miglior film straniero, dimostra che il nostro paese quando vuole riesce a riesumare qualcosa del Michelangelo sepolto in esso. Il fatto che per me sia irritante essere apprezzati dal mondo solo quando rappresentiamo masochisticamente la nostra decadenza non conta; e non conta nemmeno il fatto che in chiusura il film si dilunghi inutilmente sulla caricatura di una finta santa. Resta un’impresa cinematografica di grande spessore estetico e tagliente potenza onirica. Un’opera necessaria, un antidoto contro il proliferare di mattoni di celluloide che raccontano di coppie in crisi e nevrosi di provincia.

Lo spot con Sorrentino come testimonial, celebrazione di Fiat 500 attraverso quella del suo film, mi piace. Proprio perché è una celebrazione. In Italia infatti si perdona tutto eccetto il successo. Si perdona chi ti uccide un congiunto perché te lo chiede un giornalista in tv. Si perdona la frode perché siamo quelli dell’arte di arrangiarsi. Si perdona chi legifera per se stesso perché sorride. Si perdonano ai mafiosi le balle vendute allo stato per comprarsi la chiave delle manette. Si perdonano i terroristi perché usano il congiuntivo. Si perdona chi sevizia i pensionati per derubarli perché avere la villetta è considerato un reato sociale.

In Italia il successo conseguito facendo anziché elucubrando spaventa. Le idee, la capacità, l’intraprendenza virtuosa e non parolaia vanno boicottate. Se quindi vinci l’Oscar e per di più lo vai a festeggiare in 500, la controinformazione sgomma all’inseguimento con il portabagagli carico di teorie su complotti e connivenze. Si chiamano in causa i poteri forti. L’Oscar era già stato assegnato al film di Paolo Sorrentino prima della premiazione. “Qualcuno”, là nelle stanze dove si trama nell’ombra, ha voluto che a vincere il riconoscimento d’oro fosse proprio La grande bellezza. La Fiat, in combutta con l’emittente che ha messo in onda la prima televisiva della pellicola, aveva già architettato tutto. Scatta la delegittimazione. Il popolo social che appena può grida “buuu” addita il regista. L’autore de Il divo diventa egli stesso quel divo oscuro.

Niente di nuovo comunque. Queste chiacchiere non sono altro che lo scoppiettio a due tempi della Trabant che tanti anni fa è stata parcheggiata dentro di noi. Al volante c’è l’idea che si debba essere tutti egualitariamente mediocri. Forse proprio quello che i veri poteri forti vorrebbero.

http://www.youtube.com/watch?v=S0YOl98OgHk

Fonte immagine: ilvelino.it

Selfie, parola di Io.

selfie-oxford-dictionaries-word-of-the-yearL’autoscatto al tempo dei social diventa selfie. Il culto di se stessi esige nuove parole rituali.

Dal titolo di questo pezzo non potevate non aspettarvi un gioco di parole. Se riesco a riempire il carrello del supermercato è anche grazie alla confidenza con un linguaggio che rimodella i modi di dire e gli stereotipi linguistici. Che poi in questo caso io abbia scelto di lambire le alte sfere non è casuale. Oggi infatti il nostro dio è l’io. Lo dimostrano le tonnellate di autoscatti caricate nei social ogni giorno, ora, minuto.

La nuova definizione data a questo fenomeno di onanismo fotografico è appunto selfie. Il termine dell’anno appena archiviato è lui. Lo hanno decretato i redattori di The Oxford Dictionaries, tipi che sanno quel che fanno quando si tratta di parole, al sapere sconfinato dei quali si aggiunge l’intelligenza artificiale di algoritmi sguinzagliati a calcolare la frequenza con cui compaiono in rete determinate espressioni.

Autoscatto doveva essere rottamato. Suona vecchio, sa di esibizionismo da rotocalchi nascosti sotto il letto; odora di carta intrisa di umori trovata nei campetti di periferia. Selfie invece parla di Instagram, l’album condiviso delle Polaroid su cui non puoi lasciare le impronte dei polpastrelli; racconta di Facebook, lo specchio del nostro ego collettivo e delle legittime brame di Zuckerberg.

Selfie è carino,  giovane, immediato: ha tutto quello che piace alla rete. Inutile dire che non potremo  più farne a meno. Chi non lo userà resterà fuori dai giochi, a maggior ragione chi scrive per mestiere. Gli autoscatti dovremo chiamarli così, compresi quelli che stridono con questo vezzeggiativo da teenager iperconnessi: mi viene in mente chi si è fotografato scegliendo come sfondo il relitto di una nave da crociera naufragata pochi giorni prima, balena d’acciaio in agonia in un mare ancora percorso dall’ultimo respiro delle vittime.

L’autoritratto non è una novità. Penso ai tanti eseguiti da Vincent Van Gogh, che non credo pazzo, bensì tormentato e tenace autore di se stesso. Oppure alla tavola in cui Albrecht Dürer si rappresenta nella posizione tradizionale del Cristo, conservata all’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. O alla tela che Francis Bacon dedica a un se stesso deformato ma straordinariamente vero, esposta al Musée National d’Art Moderne di Parigi. O ancora al dipinto del Louvre in cui il Tintoretto raffigura la vecchiaia del proprio volto facendolo emergere vivido e spettrale dall’oscurità, metafora, forse, di uno spegnersi dell’esistenza terrena percepito ormai vicino.
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L’autoritratto però non è semplicemente uno specchio su cui riflettere la propria immagine, ma un mezzo per penetrare se stessi e restituire allo sguardo ciò che normalmente di sé non si vede: che sia di Robert Mapplethorpe o di Rembrandt il self portrait è indagine. Il selfie invece è reportage di un culto dell’io celebrato per inerzia, appeso a un istante che un attimo dopo avrà già perduto la sua ragione d’essere, da consumare subito perché poi verrà rapidamente inghiottito dai buchi neri del cosmo digitale.

Sia chiaro comunque che non intendo ergermi a censore. Mi fotografo e mi posto anch’io. La vanità 2.0 e il flusso di coscienza social a volte coincidono. Se siamo qui è perché vogliamo degli spettatori, negarlo sarebbe ipocrita. Il punto – essendo nato esattamente al centro degli anni sessanta – è che non potrò non sentirmi  un po’ giudicato dalle mie rughe quando prima o poi dirò: “Adesso mi faccio un selfie e lo metto su Instagram”.

Fonti immagini:
azfamily.com
autoritratti.wordpress.com

Sinestesie e idiosincrasie: le voci profumate.

Schermata 2013-12-13 a 11.24.29Le voci degli spot dei profumi.

Odore di forzatura?

Natale è alle porte. Come ogni anno cominciano a bussare insistentemente sul vetro dei nostri teleschermi gli spot dei profumi. Premetto subito che riservo maggiore attenzione ai commercial dei loro parenti poveri, i deodoranti: poiché mi diletto a percuotere tamburi e percorro mediamente quattro chilometri a piedi al giorno seguo la comunicazione di quel settore con interesse. Ciò nonostante, vedere cosa accade nell’advertising di essenze e fragranze, oltre a essere un dovere professionale, mi incuriosisce.

Ammiro volti di dive e da dive stilizzati in espressioni fatali, tipo angeli impazienti di precipitare agli inferi. Bellezze pronte a sedurre Satana facendo emergere dal getto vaporizzato dell’effluvio pubblicizzato gambe chilometriche e colli che avrebbero ispirato i pennelli di Modigliani e del Parmigianino per come si protendono verso altezze irraggiungibili.

Mi confronto con visi di uomini noti e meno noti compiaciuti/accigliati, che alternano sguardi puntati su orizzonti di gloria alla penetrazione pupillare dell’obiettivo. Adoni impegnati a confezionare il flacone della fragranza reclamizzata in un pacco da sei di addominali scalpellati, quello che tutti noi uomini tentiamo di sistemare nella teca della nostra vanità investendo tempo in allenamenti che non mantengono le promesse.

Osservo immagini, tante, di tutti i tipi. Glamour, romantiche, retrò, sportive, fashion, ammiccanti, allusive, sexy, machistiche, efebiche, fiabesche, spiritose, ambigue. Firmate anche da celebrati maestri del cinema: basti pensare al film da un minuto e mezzo girato da Scorsese per Dolce e Gabbana.

Durante queste sfilate di fotogrammi la musica interpreta un ruolo fondamentale perché asseconda il carattere  del prodotto: armonie vellutate a base di archi,  groove modello hip hop, elettricità rock’n’roll e successi del momento, senza tralasciare il repertorio vintage, evocativo di immaginari collettivi in bianco e nero d’autore.

Le parole invece non contano più di tanto. Al netto di qualche raro dialogo  sono pochissime. Giustamente aggiungo. In pubblicità il profumo è soprattutto immagine e suono. Il problema è che la manciata di fonemi con cui si concludono quasi tutti i commercial in questione ai miei timpani suona stonata.

Le voci, femminili o maschili, che scandiscono il nome del prodotto e la relativa griffe suppongo vorrebbero essere – ricorro a una sinestesia  tra udito e olfatto – “voci profumate”. Ma non è il caso di tirare in ballo la figura retorica più cara a Baudelaire. Evaporato infatti l’effetto suggestione, il tutto si riduce a sussurri, quasi sempre in un francese da indigestione di foie gras e in un inglese da fattanza post-rave, oppure a filastrocche pronunciate da robot dopati. Sono voci che parlano di profumo, ma puzzano di forzatura. Certo, è risaputo che sono studiate, contro-recitate ad arte. Lo sanno tutti che  vogliono suonare cool: lascio comunque a voi, dopo che avrete ascoltato i finali dei due spot che seguono, l’onore/onere di decidere se continuare a scrivere quest’aggettivo così o mettendo una “u” al posto delle due “o”.

http://www.youtube.com/watch?v=ggT2tbwR1xI

http://www.youtube.com/watch?v=98KAWAnqBQU

Sull’uso del corpo. In corpo 11.

uso corpo pubblicità

In pubblicità la seduzione è sedazione.

No, non dico che vorrei vedere pubblicizzato un vermouth con una rigida e castigata kore greca del VI sec. a. C., ma scorgere un’alternativa al profluvio di inutile epidermide phtoshoppata che da anni è il linguaggio dominante della comunicazione tricolore. Una grammatica del corpo avvilente, ottusamente asservita a una logora seduttività codificata due-tre decenni or sono, quando l’industria dei media supponeva che in ognuno di noi uomini ci fosse un Jerry Calà pronto a strabuzzare gli occhi per un paio di chiappe abbronzate su una barca in Sardegna.

No, non dico che vorrei vedere pubblicizzato un reggiseno con un frame della celebre performance di Marina Abramović che si fa puntare sul petto un arco teso con la freccia incoccata, ma semplicemente potermi stupire per una creatività che non si riduca alla finta anatomia del desiderio. E non è un’accusa rivolta alla sensualità: le veneri senza veli e tacchi dell’antichità si vestivano di significati, dal più superficiale al più profondo; le veneri veline del presente, tutte con le stesse dentiere e  le tette finte, significano poco.

No, non dico che vorrei trovare in pubblicità ex lanciatrici del martello (e della falce) della fu DDR sfigurate dal testosterone, ma solo imbattermi in qualcosa di diverso dalle solite donne procaci e allusive, una identica all’altra; e soprattutto non vedere più certe grottesche modelle semi-bambine atteggiate da escort, anti-vestali di un immaginario deviato e di un marketing di serie C.

No, non dico di mettere al bando la nudità – non auguro a nessuno di doversi trasformare in un novello Braghettone, pittore soprannominato così perché costretto dal pudore ipocrita della controriforma a dipingere perizomi sulle scultoree anatomie del Giudizio Universale di Michelangelo – ma solo che sarebbe auspicabile un cambiamento di rotta verso un uso diverso del corpo nella réclame, come si diceva una volta. Che non significherebbe trasformare uno spot in un documentario sulla body art e l’Azionismo viennese, ma immaginare che per pubblicizzare i servizi di un operatore internet si possa andare oltre le convessità dell’argentina con la B maiuscola.

No, non dico altro. Solo che tutta questa seduzione produce sedazione. Sempre le stesse immagini, sempre gli stessi toni. Erotismo senza motivo e privo di acume. Narcotizzazione del senso critico. Sonno della ragione che genera mostri di conformismo con cervelli di silicone.

Concludo con un paio di considerazioni sulla pubblicità dei preservativi. Avete notato quanto poco spazio concedono alla seduttività da copione e all’eros vuoto di spirito? E quanto ne lasciano invece all’umorismo e alla non convenzionalità? Insomma, non è paradossale che tocchi proprio a Durex e compagnia insegnarci che la buona comunicazione si fa con la testa, non con il cazzo?

La progettazione (ana)grafica del packaging.

Immagine 2Coca Cola e Nutella:

il prodotto sei tu?

Una ha aperto le danze,  subito dopo si è buttata in pista anche l’altra. Tra le corsie dei supermercati si è aperta la caccia alle lattine e alle bottiglie di Coca Cola  marchiate con i nomi propri di persona; nei locali di ristorazione pure. La pagina Facebook di Nutella accoglie i fan con un’applicazione che consente di richiedere e ricevere l’etichetta con il proprio nome; una volta customizzato il barattolo, chi vuole può immortalarlo, pubblicare la foto in rete e partecipare a un concorso a premi. Superfluo osservare che quanto più un’iniziativa punta all’individuale, tanto più viene comunicata attraverso i canali social, perenne qui e ora digitale.

La cosa sta funzionando, perché tutti tendono ad autorappresentarsi come individui con gusti precisi e dalla personalità distinta, nessuno vuole sentirsi parte di una mandria da portare al pascolo sui prati sintetici di un segmento di mercato. Insomma, se sul packaging del prodotto trovi il tuo nome, significa che il produttore ha pensato proprio a te; o quantomeno ti illudi che lo abbia fatto.

I consumatori apparentemente più colti e consapevoli – il vissuto nannimorettista di Nutella mi porta a pensare che i suoi addicted siano prevalentemente di questo tipo – si sentiranno forse un po’ meno uomini a una dimensione, quella del consumo e del consenso, e potranno abbandonarsi ai demoni della persuasione, riponendo temporaneamente il pensiero di Marcuse nella libreria del salotto.

I consumatori senza pretese antisistema saranno probabilmente ancora più attratti dall’icona pop colorata col caramello. Presumibilmente estranei ai cerebralismi, potranno manifestare con un gioioso crepitio di emissioni orali al CO2 la loro approvazione; della Coca Cola sono sempre stati amici, ora che in ragione del nome condiviso il rapporto si è fatto ancora più stretto, le inibizioni se ne andranno in un soffio (acido).

Il passaggio dalla progettazione grafica del packaging alla progettazione anagrafica dello stesso si è dunque compiuto. Idea facile? Facile dirlo dopo. Avrebbe potuto averla chiunque? Non lo so: a me, per esempio, non credo sarebbe venuta in mente. Sia come sia, non stiamo trattando di massimi sistemi, ma di cose da pubblicitari, artigiani della parola e dell’immagine, gente che quando progetta una confezione un risultato decente lo porta a casa quasi sempre. Certo, a volte capita che l’esito sia un packaging di merda, indegno di essere esposto sugli scaffali dei punti vendita; ma in tal caso si può sempre ripiegare sulle teche dei musei: Piero Manzoni insegna.

Fonte immagine: condividiunacocacola.it

 

Tipi e logotipi da spiaggia.

your_logo_here_460Osservando chi si tatua i brand ho coniato la parola “marketink”.

Mentre scrivo è il quarto giorno della terza decade di agosto. All’orizzonte il profilo delle coste che scendono verso i Balcani, nelle giornate limpide vicinissime alla sabbia di questo angolo settentrionale di Adriatico, la spiaggia di casa che raggiungo in mezz’ora.

Qui, come in tutti gli arenili del mondo, ci sono i classici tipi da spiaggia che giocano con i racchettoni. E i classici tipi da spiaggia che leggono. Tra questi ultimi il sottoscritto: se a qualcuno poco fa è capitato di osservarmi, avrà capito che ho cercato di far notare al gruppetto di gente da industria culturale dell’ombrellone accanto – con il ventre prominente e l’accento della città ex da bere – che stavo leggendo Punto Omega di Don De Lillo; forse volevo sentirmi dei loro, pancia esclusa ovviamente.

Ma arriviamo al punto. Ai tipi da spiaggia si aggiungono i logotipi da spiaggia: loghi tatuati su braccia, schiene, gambe e altre parti del corpo. La nudità balneare ne rivela più di quanti ne potremmo immaginare. Caso limite di amore per una marca, intenso al punto da farsela immortalare sulla pelle. Caso di studio per analizzare il successo e la popolarità di un brand. Caso umano, perché identificarsi in modo così totalizzante con le scarpe che calzi o il pc che usi rivela, a mio avviso, una personalità inconsistente. Caso di spazio pubblicitario vivente e gratuito. Gratuito fino a un certo punto: gli strateghi con questo fenomeno hanno già cominciato a fare i conti; il tattoo marketing ormai è una realtà, i brand che pagano le persone per poter disporre di un spazio permanente sulla loro epidermide aumentano di giorno in giorno.

Mi piacerebbe che questo nuovo medium a inchiostro indelebile venisse ribattezzato “marketink”. Relativamente a ciò di cui stiamo parlando, in data 23 agosto 2013, Google non ha rilevato tale definizione: spero basti per poterne rivendicare la paternità.

In passato chi navigava sui mari si tatuava velieri e cuori trafitti, nel presente chi naviga in rete può farsi travolgere dai flutti della fascinazione digitale al punto di tatuarsi il logo del più popolare motore di ricerca su deltoidi e polpacci. Mentre penso a queste cose un altro motore, regolato da chiavi inglesi anziché da parole chiave, mi fa sollevare lo sguardo dall’orizzonte: il suo canto nasale è inconfondibile; un ultraleggero a elica attraversa il cielo trainando uno striscione che pubblicizza un supermercato. Ora come allora, come quando avevo l’età con una sola cifra; secoli fa o l’altro ieri, dipende dai punti di vista. Rifletto sul tempo. Tutto cambia, nulla cambia, ogni cosa si trasforma. Magari oggi lo chiamano flying marketing o qualcosa del genere, ma questo non mi interessa verificarlo.

Riporto lo sguardo sul profilo delle coste vicine/lontane continuando a ragionare sul tempo, ma senza pretendere di elaborare qualcosa di originale come De Lillo in Punto Omega. Mi pongo semplicemente la solita vecchia domanda: quanto tempo ci è voluto per trasformare la roccia in sabbia?

Fonte immagine: www.details.com

Peso dunque sono. Anzi, no.

Kate Moss gold sculpture by Marc QuinnfullNon siamo il nostro peso. Pensiamoci.

A darmi lo spunto per riflettere sul delicato argomento magrezza/grassezza è stato uno spot a diffusione locale di un centro dimagrimento. Ne descrivo in sintesi il meccanismo, premettendo che a mio parere gli mancano parecchi ingranaggi: due ragazze, una particolarmente sovrappeso, l’altra decisamente snella, si affrontano sul quadrato di gara della boxe, ma non come pugili, bensì come ring girl. La prima tiene alto sopra la testa un cartello con scritto “percorso iniziato”, la seconda uno con scritto “risultato ottenuto”. Contemporaneamente l’una cerca di cacciare l’altra dal ring a colpi d’anca, e viceversa. Il video termina con l’arbitro che le proclama ambedue vincitrici. La voice over recita: “E sei sempre vincente”.

Ho provato a interrogarmi sulle ragioni di queste scelte narrativo-comunicative, ma sono riuscito a darmi solo spiegazioni tanto macchinose quanto inconsistenti. Forse si vuole fare passare il messaggio che a prescindere dal risultato vale comunque la pena sottoporsi al trattamento? E perché? Per dimostrare uno sforzo di volontà? Chissà.

Qualunque sia il significato, resta il fatto che trovo sgradevole la messa in scena dello scontro fra il canone imperante e quello disperante. Non intendo dare lezioni di etica sull’estetica corporea, semplicemente rifiuto la logica eugenetica del dominio di un modello sull’altro, qualunque esso sia.

Mentre cerco di dare forma a queste considerazioni, una tipa sui quarantacinque seduta al tavolo accanto al mio sta mangiando una “insalatona”, definizione abominevole. È magra da far paura. Tiene lo sguardo fisso davanti a sé, con espressione ieratica e al contempo assente, un incrocio fra un’icona bizantina e un’istantanea di Kate Moss on dope. Ora ho capito. Sta contemplando il piano americano di se stessa riflesso sulla superficie interna della vetrina della pizzeria. Sembra che il suo pensiero dica compiaciuto: “Magra, magra, magra, guarda come sei magra”. Non giudico, ognuno di noi ha una storia e cicatrici che l’altro non conosce.

Ecco la cameriera, stavo proprio per ordinare il caffè. Quando me lo servirà dirà, come sempre: “Tiene amòr!”, parole che riserva a tutti gli avventori sia chiaro. È una simpatica mora sudamericana sui quarant’anni, il metro e sessanta e gli ottanta chili. Le chiedo di portarmi un “liscio”.

Raccolta la mia ordinazione, si rivolge con occhio perfido alla magra accanto a me:

– Por lei un dolce segnora?

– Mi basta un caffè, liscio. Senza zucchero, mi raccomando, – risponde la donna lanciandole un sorriso acido.

– Como! Ha paura de ingrasare anche col cafè? – ribatte la cameriera sgranando teatralmente gli occhi.

La magra la segue con lo sguardo, fa per ribattere, ma cambia idea; poi ritorna alla contemplazione della propria immagine. La sua fissità tuttavia si è incrinata, colgo nel suo sguardo una sfumatura di preoccupazione. Si tocca i fianchi, le braccia, le cosce; un istante dopo compare sul suo volto un bagliore di soddisfazione; ho l’impressione che la sua mente stia dicendo: “Altroché se sono magra, quella ride perché è invidiosa”.

Credo che anche lo scambio di battute e silenzi a cui ho appena assistito sia stato un match, ma assai più significativo di quello descritto in apertura. Al mio cospetto è avvenuto un confronto fra un io indulgente e un io tirannico. Non so chi ha vinto; so solo che ho tenuto per entrambi, perché le persone non sono il proprio peso, sono e basta.

 

 

Parole a pacchi: elogio al packaging.

DSCN1775Pamphlet in difesa

del packaging che informa, racconta e coinvolge.

Sto per rivelarvi una cosa che detta altrove provocherebbe nella migliore delle ipotesi ilarità e, nella peggiore, preoccupata perplessità. In questa sede però, fra gente che ha eletto la parola a fonte di sostentamento, so di poterlo fare. Lo confesso: leggo i testi delle confezioni del dentifricio; non solo, anche quelli del packaging dei cracker. Lo faccio soprattutto per premiare chi li ha scritti, persone che meritano rispetto perché nel farlo si sono impegnate. Mi è capitato di rado di lavorare a cose di questo tipo; se sapessi che qualcuno si è preso la briga di buttare l’occhio sul corpo minuscolo di quei caratteri ne sarei gratificato.

Poesie in terzine di endecasillabi su confezioni di merendine; consigli dietetici esposti con linguaggio da luminari della medicina su involucri di fette biscottate light; ricette da chef stellato – definizione irritante – su scatole di riso; storie di alchimisti degne di Marguerite Yourcenar su flaconi di prodotti di erboristeria. Parole che compiono uno sforzo eroico per cercare di farsi leggere e fare la differenza, con buona pace dei più cinici; testi dietro i quali c’è del lavoro, del buon lavoro.

Sono un sostenitore delle confezioni comunicative, non mi faccio blandire da quelle scaltramente minimaliste; propendo per contenitori che valorizzino l’atto del consumare. Non mi riferisco solo a cibo e bevande, ma anche ad altre categorie di prodotti, comprese quelle che per consuetudine limitano le informazioni riportate sul packaging alle norme d’impiego.

Auspico l’adozione di un approccio di questo tipo anche per determinati farmaci. Gli antidepressivi per esempio meriterebbero confezioni studiate per coinvolgere emotivamente chi li assume. Perché i biscotti sì e la Paroxetina no?  Da una casa farmaceutica evoluta mi attenderei scatole con grafiche pop art e blister cromati contenenti compresse con emoticon sorridenti; meglio se accompagnate da nomi che invece di ispirarsi a molecole e principi attivi attingessero a un immaginario rasserenante; ancora meglio se condite con storielle a lieto fine e citazioni da Candido, o l’ottimismo di Voltaire nel bugiardino.
Certo, l’autorevolezza scientifica esige da questo tipo di medicinali codici verbali e visivi ormai divenuti archetipi, ma scardinarli, operazione audace, potrebbe rivelarsi producente.

Avendo frequentato, sia pur per breve tempo e in quantità risibile, la farmacopea del benessere indotto, credo di poter dare almeno un suggerimento. Tra le parole che meglio si presterebbero a fare da contrappunto lirico alla scientifica freddezza delle indicazioni terapeutiche c’è il ritornello di una canzone che ha come titolo un ossimoro, scritta da un mio carissimo amico, leader della band Prozac+. È un invito a cogliere la luce in fondo al tunnel, che vedrei bene, magari stampato in Lobster, sul packaging di una qualsiasi pillola della felicità:

io sono gioia nera / non pensare più a me / non pensare più a me
io sono gioia nera / non pensare più a me / non pensare più a me

 

Ecco cosa mi sono messo in testa: uno storytelling.

storytelling berretto di panno

C’era una volta un berretto. Una storia

da raccontare ora.

Circa una settimana fa, cercando un documento nel computer, mi sono imbattuto in una cartella intitolata “frammenti”. Me n’ero quasi dimenticato. Una raccolta di storie brevissime, scritte di getto alcuni anni fa, a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, impresse sui fogli di text edit con i caratteri della tristezza. Le ho riscoperte con affetto per il me stesso che in quel momento si era perduto, ma non senza un certo imbarazzo. Non è facile riconoscersi dopo che la serenità ha spodestato la cupezza. Il fatto curioso è che rileggendo il frammento che riporto qui di seguito in corsivo mi è venuta un’idea. In cosa consiste ve lo dirò poi.

“Parlo di un mese fa. Da allora non è cambiato nulla. La malinconia mi divorava l’anima. E non perché fosse un sabato pomeriggio di fine estate. Non mi ha mai minimamente toccato l’eutanasia di una stagione in cui i più sono convinti sia lecito fare ciò che nelle brume d’autunno, nelle luci elettriche invernali e nell’aria clorofillosa della primavera non si farebbe. Sta di fatto che acquistai un berretto di panno da marinaio. Ruvido, pesante, quasi a voler catapultarmi di colpo avanti nel tempo, nella stagione successiva, per cercare di anestetizzare il presente. 

Bizzarro forse. Almeno quanto il fatto di provare un’inedita forma di piacere nel trovarmi in un centro commerciale, tipo di luogo che ho sempre frequentato il meno possibile. E non per ricevere il plauso delle conventicole snob etno-firmate, lontane da me almeno quanto lo sono gli Oasis dai Coldplay, ma per via dell’aria dolciastra incellophanata che vi regna sovrana. Per non parlare del ronzio di impianti di diffusione sonora che propagano musica escrementizia, per fortuna destinata a giungere indefinita alle orecchie del formicaio che affolla il suolo, giustamente condannata a rimanere sospesa nel limbo di bagliore al vetrocemento che ristagna sotto volte e soffitti. 

Eppure, quel pomeriggio, tutto ciò riusciva a rasserenarmi, per il semplice fatto che l’angoscia della solitudine senza appello veniva temporaneamente messa in pausa. Momentaneamente. Sarebbe infatti stato ingenuo immaginare che una volta apertesi le porte automatiche sull’afa asfaltata del parcheggio, il tasto play non facesse ripartire il nastro con registrato sopra il silenzio inquieto della depressione ansiosa. Però tenevo in mano il mio nuovo berretto di panno da marinaio. Per meglio dire: mi aggrappavo a esso con tutto il corpo e lo spirito, coltivando la vana speranza che prima o poi mi conducesse verso l’invisibile, lontanissimo approdo oltre le profondità in cui ero finito. Nelle quali mi trovo ancora.

Ebbene, quel copricapo, comprato con la scusa di rubare con lo sguardo e il pensiero un antidoto per l’infelicità a degli estranei, quell’accessorio sufficientemente stiloso da indurmi quel giorno, quando la vanità avrebbe dovuto restare in panchina, a domandare allo specchio “come mi sta?”, lo sto indossando proprio adesso, mentre scrivo. Cosa, quest’ultima, che sto facendo scomodamente seduto sul coperchio della tazza del cesso, alzando ogni tanto gli occhi dal quaderno aperto sulle mie prospettive incolori per osservare il mio mezzo busto riflesso sulla parete sopra il lavabo, inquadratura buona per un film tanto pretenzioso quanto scadente, la cui sceneggiatura inizia dalla fine. La mia. La mia fine come “io”. Ho deciso infatti che voglio riconvertirmi in un “tu”. Non sarà più: “Io ho comprato un berretto”, ma “Tu hai comprato un berretto”. Penso che guardandomi dall’esterno mi sentirò meno coinvolto da ciò che mi accade. Un buon modo per ricominciare. 

Sento un gran caldo alla testa, qui, ora, il ventinove settembre di uno degli anni climaticamente più roventi degli ultimi cinquant’anni, ma ho deciso che non mi curerò del sudore che dal cranio soffocato dal tessuto spesso mi sta colando giù sulla fronte; in avvenire cercherò di dare minore importanza possibile a tutto ciò che mi riguarderà sotto il profilo del piacere e del dispiacere. Per quanto concerne l’immediatezza del presente continuerò a osservare – tra un punto e una virgola vergati in pessima calligrafia sull’infantile foglio a quadretti su cui sto annotando il mio fallimento sentimentale – il “tu” di me stesso clonato dal vetro arricchito di metallo che mi sta di fronte. Augurandomi che di quell’immagine io prima o poi riesca a leggere tra le righe qualcosa di significativo. Di significativo per gli altri. Solo allora mi toglierò il berretto di panno da marinaio.

La storia termina così, con parole dettate da un cuore ridotto a portacenere, come quello cantato dai Placebo in un brano che al tempo ascoltavo spesso per trovare un riscontro elettrico-lirico al mio dispiacere.

Quel berretto di panno da marinaio non lo indosso più da un pezzo. Fortunatamente la tempesta è passata. Al suo posto – e veniamo all’idea cui accennavo all’inizio – mi sono messo in testa un’altra cosa. Più futile ma più utile. Mi piacerebbe  trasformare le parole a suo tempo intessute su quel copricapo nel punto di partenza di un progetto di storytelling per una fashion label. Se sentite dunque di un’azienda del settore accessori moda interessata a una storia che abbia come protagonista un berretto, fategli pure il mio nome. Non si sa mai. Grazie. E tanto di cappello alla vostra gentilezza.

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