Come un semplice cambio di numero può modificare la vita di una persona.

cambio di numeroLa nostra storia comincia la sera di ferragosto.

Clima tropicale, 40°, la capitale è un forno. Giro in motorino come Nanni Moretti in “Caro diario”. Da appassionato cinefilo ripercorro lo stesso itinerario del regista: Viale Garibaldi, il Gianicolo, Monteverde, Via delle Fornaci, i sottopassaggi del Lungotevere, la Garbatella fino a Spinaceto. Continua a leggere

Vedo la gente Conad.

vedo la gente conad

Non siamo soli. Neanche in questo momento, mentre stai scorrendo queste righe con gli occhi incollati alla fredda luce del monitor, loro sono dietro di te. Non serve a nulla girarti di scatto, non funziona così. Faresti solo aumentare il tuo senso di disagio e crescere l’ansia. Sarà per via di quel brividino che ti corre lungo la schiena? Sto parlando di ciò che gli occhi non vedono, di quello che c’è dopo. Spesso quello che ci sembra di vedere non corrisponde a reltà ma a una realtà che ci costruiamo. Vediamo quello che vogliamo vedere, per non soffrire. Troppo criptico?

Lascia allora che ti racconti una storia. C’è un tizio che si chiama Francesco, cresce in un bel condominio di una operosa città del nord. La sua infanzia è serena, spesso gioca a casa dei vicini, dove vive una giovane vedova affettuosa che per Francesco diventa una zia acquisita, con un figlio della sua età, timido e introverso.Poi arriva il liceo e i tempi dell’università dove conosce Giulia, la sua prima fiamma, che vuole diventare botanica.

Ma Francesco ha anche amicizie virili nate sui campi di calcio: Matteo e Giovanni.

Matteo è uno che ha poca voglia di studiare e con la fissa della sicurezza e la voglia di difendere il prossimo si arruola nell’esercito. Giovanni, dopo sudati anni di studio in medicina diventa chirurgo e salva vite. Unica passione: le auto potenti.

Dopo l’università Francesco capisce che la sua laurea in lettere conta poco per entrare nel mondo del lavoro e dal momento che ha la passione per la scrittura si iscrive a un corso di giornalismo dove consoce Enrico, capo redattore del quotidiano locale, un maestro di vita che gli trasmetterà la sua esperienza e gli farà da mentore intravedendo il potenziale di quel ragazzo volenteroso.

Passano gli anni e le cose cambiano. Però non in meglio.

Giulia, attratta dalla bella vita, si mette con Giovanni, Matteo spesso è impegnato in rischiose missioni di pace, un pirata della strada ubriaco falcia tre vittime e una di queste è la vicina di casa. Arresti domiciliari.

Il figlio, rimasto orfano, non regge al trauma e cerca rifugio nella droga.

Francesco fa di tutto per spingerlo a uscirne, in nome della vecchia amicizia, ma una dose tagliata male lo spazza via.

Francesco entra in depressione e nemmeno il lavoro di redattore procuratogli da Enrico sembra di conforto. Poi le cose precipitano.

Dopo un turno massacrante di 12 ore in ospedale Giovanni sta per partire per le vacanze con Giulia ma viene trattenuto da un’emergenza: un uomo viene trasportato in sala operatoria in codice rosso. Giovanni si rimette il camice e lo apre. 8 ore di intervento, tumore al pancreas asportato. Prognosi riservata.

Torna da Giulia e decidono di partire che è quasi l’alba.

“Fermati per un caffè” dice lei. “Non ti preoccupare,arrivati all’autogrill mi dai il cambio.” fa lui e la bacia. Non arriveranno mai all’autogrill.

Non sarà la stanchezza di Giovanni a tradirli ma il mancato funzionamento dell’ABS su fondo reso viscido dalla pioggia. Su un’auto tedesca premium price. Roba da mezza stella su Quattroruote.

Mentre la stradale è intenta nei rilevamenti al cellulare di Giovanni, rimasto miracolosamente integro, arriva un sms dall’ospedale. L’operazione era perfettamente riuscita ma purtroppo il paziente è deceduto per sopravvenute complicazioni.

Domani il quotidiano locale sarà sicuramente pieno di necrologi: era uno di loro, il miglior capo redattore, uomo buono e generoso. Mancherà a tutti. A Francesco di più.

E siamo ai giorni nostri.

In un posto sperduto dell’Iraq Matteo prova sulla propria pelle che la resistenza della corazza del Lince su una mina è da migliorare. Una bella medaglia al valore, notizia in prime time ai tg della sera e funerale di Stato. Francesco ha riposto le velleità di giornalista, si è sposato ed è proprietario di un supermercato. La sua passione per la qualità e per il servizio al cliente lo porta a controllare la merce ossessivamente, compulsivamente. Anche di notte. La moglie dopo infinite litigate, sentendosi trascurata, non ne può più e si fa l’amante. Insieme decidono che un supermercato ben avviato è un bell’investimento in tempi di crisi.

Così una notte, mentre Francesco sveglia la moglie con il solito “Amore, devo andare a controllare la freschezza”, l’amante lo aspetta nel vicolo al buio con un coltello in tasca.

La lama brilla nel buio. È un attimo e a Francesco non fa nemmeno male.

E così, mentre è disteso sul selciato, in una notte umida e sente la vita scorrergli via Francesco incontra un simpatico metronotte, una gentile fioraia, un generoso barista,un paterno giornalaio, una riconoscente donna con la macchina in panne, un netturbino servizievole… O almeno questo vuole credere che accada.

http://www.youtube.com/watch?v=uJ5jNKSpbbc

 

 

 

 

 

Un amore accecante

un amore accecante

Arriva l’onda!” gridò quando capì che il mare avrebbe inondato quel giovane corpo abbronzato e lucido di oli solari, sdraiato troppo vicino al bagnasciuga e ignaro sotto a un cappello di paglia nero stile anni 50’.

Lui immolò le sue scarpe da tennis per salvare asciugamano, zainetto, sandali e libro in lingua straniera. Il corpo apparteneva a un’atletica ragazza che gli sorrise strizzando gli occhi per il sole accecante. Lui chinandosi su di lei eclissò con la sua nuca il bagliore di mezzogiorno e le sorrise con gli occhi.

Spesso gli avevano detto che aveva gli occhi “che parlavano”.

Lui aveva il doppio della sua età o lei la metà di quella di lui, fate voi. Lui 44, lei 22.

Si presentarono, rimasero a parlare. Il sole accecante si tramutò in stelle e loro erano ancora lì.

Fu un estate meravigliosa che proseguì in autunno quando decisero di dividere lo stesso tetto.

Quando andavano in giro per il lungomare la gente si domandava se erano padre e figlia e loro ridevano complici. Lui faceva l’amore con passione mista a rabbia; se la sarebbe mangiata se avesse potuto. La sua freschezza gli donava emozioni mai provate, era brillante, ironica e lui non capiva come poteva stare con uno della sua età. Allora lei gli metteva il broncio e scuotendo la testa gli ripeteva “Sei proprio una zucca, forse un giorno ti farò diventare melanzana.” e gli si accoccolava accanto come una gatta.

A questo punto di solito lui l’abbracciava forte forte e i suoi occhi parlanti lacrimavano.

Dopo l’inverno e la primavera tornò l’estate con un sole implacabile e un giorno lei era a prendere il sole intenta a leggere quando sentì gridare “Arriva l’onda!”.

La voce apparteneva a un ragazzo in bermuda, codino, tatuaggio tribale e orecchino che immolò i suoi anfibi per salvarle l’asciugamano.

Avevano la stessa età, stessi gusti musicali, leggevano gli stessi autori stranieri, fumavano le stesse sigarette. Combaciarono subito: come le ultime due tessere di un puzzle. Lei cominciò a frequentarlo. L’altro, non le interessava più.

Era tornata in sintonia con la volubilità della sua età. Il quarantacinquenne innamorato soffrì oltre ogni previsione. La chiamava in continuazione finché alla fine lei fu costretta a cambiare numero; le sue lettere tornavano indietro, non riusciva più a dormire, né a mangiare, né a lavorare. Precipitò nella depressione più nera. Trascorsero i mesi e gli arrivò prima voce, poi conferma che lei stava sempre con il coetaneo nonostante questi la trattasse male e la tradisse senza nasconderlo.

Tornò l’estate col sole accecante. E un sabato verso mezzogiorno lui la rivide, distesa come la prima volta. Si chinò su di lei oscurando il bagliore accecante della luce, come al primo incontro.

Lei riconobbe quegli occhi “che parlano” e si sentì come svenire.

E fu allora che gli occhi di lui si riempirono di lacrime mentre disse: “Bisturi.”

 

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Vogliamo te, Mario Rossi.

Perché ogni volta che posteggio la macchina sotto casa, anche di notte, di ritorno dal turno, c’è sempre un furgone grigio delle pulizie con due loschi figuri che si ferma poco più avanti? Non sono ricco, non gioco d’azzardo quindi non ho nemici che vogliono darmi una lezione. Sarà una coincidenza, ma mi sento osservato da dietro quei vetri luridi.

Però a pensarci bene, ormai da un mese, tutte le mattine dal giornalaio incontro quella signora anziana con le buste della spesa che mi chiede dov’è la fermata del 314. Strano: mai visto quell’autobus passare in zona. E quei due attempati testimoni di Geova che mi citofonano alle ore più assurde per dirmi che la mia salvezza è giunta? Sono ateo, o meglio agnostico, e all’inizio gli ho detto educatamente che non mi interessava, poi li ho mandati via in modo più energico. Ma loro dal monitor mi hanno sempre risposto con un sorriso. Fino alla suonata successiva. Basta! Domani vado dai Carabinieri e li denuncio per molestie. Una bella rogna!

Non bastava la disoccupazione. Un over 50, laureato e con un master in comunicazione d’impresa, copywriter fallito, costretto dalla crisi a fare il guardiano notturno di un centro commerciale aperto da poco nella periferia nord della città. Lavoro stressante, monotono, solitario ma che almeno mi permette, una volta effettuato il mio giro di ricognizione, di leggere o scrivere in pace racconti. La mia passione. E così eccomi qui, alle 3 del mattino a ripensare a quegli incontri inquietanti davanti a una tazza di caffè e a uno schermo del pc dove il puntatore del mouse lampeggia da mezz’ora.

Non riesco a scrivere una parola. Ho la testa che mi gira come una trottola. Come se avessi bevuto una botte di whisky. Decido di farmi un giro per schiarirmi le idee. Anche se ho già controllato tutto. È una notte come tante, d’agosto: appiccicosa e morta.

Percorro il corridoio illuminato da una luce al neon che va e viene e arrivo all’ascensore. Schiaccio il secondo piano, dove c’è l’abbigliamento intimo donna/uomo. Forse la vista di qualche guepiere o tanga mi metterà dell’umore giusto. Fatti pochi metri l’ascensore si blocca. E adesso? Premo il pulsante dell’allarme ma ci sono solo io e quindi non succede niente. Batto con i pugni e, miracolosamente, le porte si aprono. La paura svanisce sostituita da qualcosa che non saprei definire ma che è peggio.

Davanti a me, nell’oscurità, riesco a riconoscere 5 sagome. Appartengono alla vecchia con le buste della spesa, ai due testimoni di Geova e ai due della ditta di pulizie. Che volete? Che ci fate qui? Come siete entrati? Non rispondono e avanzano minacciosamente come automi. Sono dentro l’ascensore. Mi circondano. Impugno la torcia elettrica come una clava. Forse posso stendere la vecchia con le buste della spesa ma i due della ditta di pulizie sono grossi anche se il loro sguardo è spento.

“Vogliamo te, Mario Rossi.” fa uno dei testimoni di Geova, un sessantenne con gli occhiali da miope e la pancia di uno che da tempo non sale su una bilancia. “Vogliamo te, Mario Rossi.” ripete la vecchia con le buste della spesa che emanano un tanfo di verdure e pesce ormai in putrefazione. “Come mai conoscete il mio nome?… Io non vi conosco. Che volete da me?” urlo con le spalle ormai alla parete dell’ascensore. Si avvicina quello più grosso della ditta di pulizie. Indossa una tuta verde sporca, ha la barba di 5 giorni, puzza da vomitare ma ha una voce sorprendentemente gentile. “È giunto finalmente il momento di andare. Di tornare a casa. Non ti ricordi proprio?” Abbasso la torcia e lo guardo con un mare di incredulità negli occhi. Sono tornato lucido, la paura è svanita.

“Circa 50 anni fa, per un’avaria alla nostra astronave, siamo precipitati su questo pianeta sconosciuto distante milioni di anni luce dalla nostra galassia. Per sopravvivere durante tutto questo tempo abbiamo assunto le sembianze degli organismi più evoluti che lo popolavano. Ci sono voluti tutti questi anni per riparare il guasto ma adesso finalmente è tutto a posto. Torniamo a casa, la nostra casa. Puoi abbandonare quel corpo”

Avevo voglia di urlare, mi voltai e fu in quel momento che riflesso nello specchio dell’ascensore vidi per la prima volta il mio vero volto. Ne uscì un suono stridulo che fece scattare gli allarmi del centro commerciale.

Noi contro Voi.

Noi contro voiUn tempo per divertirsi bastava davvero poco, altro che Play Station, X-box, smartphone. Voglia di sfidarsi, di sudare e faticare. Stare sul divano col joystick in una mano e il secchio di pop corn nell’altra non era un’ipotesi contemplata. Meglio stare all’aria aperta. 

Se sei nato negli anni ’70 forse potrai capirmi, altrimenti spero tu faccia uno sforzo. Ne varrà la pena perché le cose, in fondo, non sono quello che sembrano. Fidati. E una piccola sorpresa trasformerà in un sorriso quella tua aria sospettosa.

Parliamo di calcio. Che tu lo ami o lo odi sai di che parlo e delle emozioni che genera. Un prato verde, una sfera di cuoio, due porte, due squadre.

Si comincia! Noi contro voi. Ci disponiamo in campo con un 4-3-3 speculare, tutta tattica, strategia, come una battaglia napoleonica, come una partita di Risiko.

Vestiamo d’azzurro, tutti e 11 della stessa età, stesso taglio di capelli, come la squadra della Wermacht che in “Fuga per la vittoria” affronta i prigionieri alleati dello Stalag, impersonati da campioni del calibro di Pelè, Bobby Moore, Ardiles con l’aggiunta dello yankee Sylvester Stallone che confonde il football con il soccer, non sa correre, non sa dribblare ma alla fine para il rigore decisivo. Questo film di John Houston all’inizio degli anni ’80 fece urlare “Victoire” al pubblico del cinema come fosse allo stadio. Tutti ebbri di passione, di gioia, di voglia di riscatto dopo un primo tempo terminato in svantaggio per 4-1 contro tutto e tutti.

E il giorno dopo nei campetti di periferia, con esiti disastrosi e dolorosi, provavamo a replicare la mitica rovesciata di Pelè che allo scadere regalava il 4-4 che era meglio di una vittoria da tre punti. La squadra dei prigionieri con un’epica partita tutta sacrificio e dedizione gliel’aveva fatta vedere ai tedeschi e al loro arbitro venduto.

Poi la resistenza francese alla fine del film li faceva scappare confusi tra la folla che invade il campo ed eravamo tristi per il colonnello Von Steiner, magistralmente interpretato da Max Von Sydow, unico crucco leale, vinto ma in fondo in fondo soddisfatto che alla fine avesse prevalso il bel giuoco come dicono quelli demodé. Ma per noi amanti del pallone il succo del film stava tutto in quella partita magistralmente girata, coreografata con scene al ralenti e accompagnata dalle note enfatiche della colonna sonora di Bill Conti, quello di Rocky, per intenderci.

Adesso siamo qui con la palla bianca sporca di terra, stile calcio inglese dove piove sempre e il campo è allentato, e alla fine i 22 escono infangati, feriti come gladiatori ma orgogliosi come eroi che non si danno mai per vinti. Sento il rumore secco dei contrasti della serie “o palla o gamba”, perché come tutti sanno ”il calcio non è un gioco per signorine.” Palla in tribuna, interventi a piedi uniti, urla, volti paonazzi, sudore e lacrime in una bolgia infernale che incita e fa il tifo per te.

Ogni gol subito è una mazzata che stenderebbe un toro. Il pathos è ai massimi livelli. Senza arbitro, niente regole. Anzi, una sola: vale tutto. Si arriva ai 10.

Pronto per la rivincita? Allora metti nella fessura un’altra moneta, tira la leva e senti le palline che arrivano rotolando. Tirala al centro. Giochiamo!

Sorpreso? È il calcio-balilla, bellezza. E tu non ci puoi far niente!

Vitelloni di ieri e di oggi: il ritorno del maschio… latino

Ci sono stereotipi e comportamenti che non cambiano mai e sfidano il tempo.

Ad esempio il vitellone con un’idea fissa: quella.

Vitelloni di ieri e di oggi

Negli anni’80 quando andavano di moda telefilm patinati come Miami Vice tutti cercavano di imitare i protagonisti indossando vestiti alla moda, cercando di frequentare location suggestive, belle donne e soprattutto… parlando un inglese maccheronico. Così il giorno dopo al bar il vitellone raccontava agli amici come aveva trascorso la serata più o meno così:

Saldo il check del brunch con la Master Card. Ho un meeting con la mia girlfriend nell’interland della city per una preview del blockbuster. Arrivo a bordo della mia spider con lo smoking. Lei è glamour e durante il summit con un bliz le propongo un weekend. Risponde okey. Ma prima un break per un drink nel mio loft. I kids in jeans sono con la baby sitter nel baby garden a giocare col go kart. Spingo play su un dvd adults only troppo hard e lei preme stop. Vediamo Grey’s Anatomy in prime-rate sdraiati sulla chaise-luonge, bevendo Coke e fumando Chesterfield. Il mood è soft, la privacy al top e ho un escalation per l’happening. Volano papillon, boxer, guêpière e slip. Siamo sulla moquette. Raggiungo la pole position al ralenty per aumentare la suspance del mio target e gioco il mio atout: “Ritardante per lui stimolante per lei”. Lo score della mia performance? Top secret, nonostante tutto sono sempre un gentleman.

Oggi l’esterofilia è divenuta parte del nostro vocabolario quotidiano e non ci facciamo più caso. Però da qualche giorno sta riaffiorando dal dimenticatoio una lingua che molti credevano morta e sepolta. Il Latino. Il ritrovamento di una tavoletta con inciso il resoconto di un vitellone a.C. conferma la tesi di partenza: nei secoli è cambiato il modo di esprimersi ma per certi vitelloni l’idea fissa resta sempre e solo quella.

Saldata poena pecuniaria cum carta nominata postea magnata veni preiferia urbae per prima visione su maxischermo cineforum. In vestimenta da sera, magno quam deux ex machina scendo. Vidi matrona Ceaseris bona quam panem et longa manu morta palleggiatoque posteriore suus fecit. Extrema ratio manifactura labor non solo quod astae erigenda est in climax porpureo. Ut sancta sanctorum puella expugnatur alea jacta est. Durex, Control et Personal Hatu in meo auxilio coadiuvarunt maxima resa.

Il treno delle 14,45

Bello questo blog dove i copywriter possono sbizzarrirsi e lasciare un’impronta, un segno di stile. Tenuto conto della situazione che stiamo tutti attraversando mi fa piacere constatare che tutti, bene o male, precari o meno, lavorate. Per me non è così poiché sono diversi anni che sono fuori dalla giostra e non riesco a rientraci. L’età, le competenze, le conoscenze… le cavallette! Il problema della disoccupazione e grave, per un copywritar del 1960 è peggio e lo lascia senza parole. Nemesi per uno che dovrebbe sempre averne in tasca, fresche di giornata. Ti senti su un binario morto e guardando fuori dalla finestra mentre piove ti viene in mente una storia come questa.

Il treno delle 1445Il treno delle 14,45

Sono certo che sarete d’accordo con me su una semplice constatazione: “Quando un gesto o un evento si ripete in maniera ossessiva, si possono scatenare reazioni impensabili, anche in una mente saggia, tranquilla e razionale.

Se siete di parere diverso, concedetemi qualche minuto di attenzione.

Era un giovedì di una calda estate, l’ora quella della siesta. Seduto sulla solita sedia, la faccia contro il vetro sporco della finestra, aspettavo l’impercettibile tremore della casa crescere gradualmente.

Tempo 30 secondi tutto avrebbe tremato, dalle suppellettili al bicchiere con le mie matite accuratamente temperate sulla scrivania. Il rapido delle 14,45 sarebbe passato davanti ai miei occhi, senza fermarsi, lasciando dietro di sé una nuvola di polvere, come ormai accadeva da mesi.

La mia piccola stazione di campagna non era più meta di viaggiatori, non so più da quanto tempo. Come spezzoni di un vecchio film ricordo abbracci commossi, lacrime di addio versate su valigie cariche di tristezza e di speranze, voci di bambini eccitati per la partenza. Ma quello che mi manca di più sono gli appassionati baci di giovani amori nel momento doloroso della separazione. Quanti ne ho visti da dietro quel vetro sporco. Quante volte ho sofferto con loro.

Non viene neanche più quel buffo ometto che tutti i giorni, alle 12 in punto, nel preciso istante in cui le lancette dell’orologio in cima al binario 1 si sovrapponevano, si materializzava dal nulla sulla banchina. Aveva sempre con sé una valigia troppo piccola per un grande viaggio. Non parlava, guardava l’orologio e aspettava fino al passaggio del rapido. Poi, come d’incanto, scompariva.

Ricordo che una volta gli chiesi perché non partiva mai. Mi rispose che partire è un po’ come morire e raccontò con dovizia di particolari le strane cose che vedeva nei suoi sogni e che il giorno dopo si ritrovava davanti senza preavviso.

Un giorno non venne alla stazione. Né i giorni seguenti.

Venni a sapere che l’avevano portato via su una lunga auto nera. In fondo aveva ragione lui. Partire è un po’ come morire. Ma sto divagando. Uscii al sole.

Il convoglio era passato e adesso era solo una piccola macchia tremolante per il calore che si perdeva all’orizzonte,scomparendo dietro alle colline.

Cercai di concentrarmi cercando di captare anche il più flebile segno di vita di quell’ambiente che sembrava essere caduto in letargo.

Un uccello che canta tra gli alberi, un refolo di vento. Niente, come al solito.

L’aria era ferma ed il cielo pareva lastra infinita di azzurro lucente, con al centro una palla di fuoco.

Aggiustai il nodo della cravatta con estrema cura e rientrai, accennando un sorriso, come se la stazione fosse stata ugualmente piena di gente. Chiusi la porta a chiave e con calma mi diressi verso lo specchio.

La faccia che mi fissava aldilà del vetro certamente non poteva essere la mia. Ne sono certo. Di sicuro lo specchio si doveva essere guastato, col tempo.

Rimasi ore a fissare quel volto sconosciuto, per niente intimidito dal suo sguardo, così simile al mio, mentre cercavo qualcosa di interessante da dire per rompere il ghiaccio.

Ma quello non mi aiutava. Non collaborava. Sembrava si divertisse un mondo a imitare ogni mio più piccolo movimento, come in un buffo gioco di bambini. La cosa dopo un pò, iniziò a diventare irritante.

Mi scostai dallo specchio, nell’intento di lasciare con un palmo di naso quello straniero che si faceva beffe di me.

Tornai a sedermi sulla sedia della scrivania per concentrarmi sul panorama al di là del vetro sporco. Ma non feci neppure in tempo a lanciare un’occhiata di fuori che una strana sensazione, qualcosa di indefinito mi fece voltare. E fu allora che vidi quella faccia da forestiero, ancora lì, nascosta dietro lo specchio. Rideva, rideva sempre più forte, fino alle lacrime, puntandomi il dito addosso, come un bambino impertinente.

Le sue risate sempre più forti mi rimbombavano nel cervello, facendomi pulsare le tempie. Mi sentivo soffocare e la stanza cominciò a girare.

Mi alzai di scatto dalla sedia che rovinò sul pavimento insieme alle matite. E fu in quel preciso istante che finalmente ebbi l’illuminazione. In un momento divenne tutto chiaro.

Sì, ora sapevo cosa fare. Con lucida determinazione mi diressi come un automa verso il ripostiglio. La porta si aprì cigolando. Cercai a tentoni l’interruttore della luce mentre con una mano rovistavo tra gli scaffali facendo cadere scope e oggetti ormai dimenticati. La luce inondò il piccolo e stipato stanzino costringendomi a strizzare gli occhi e finalmente vidi il martello, nascosto su un ripiano accanto ad un vecchio ferro da stiro.

L’eco di quella voce insolente che continuava a ridere avrebbe avuto vita breve.

Mi avventai contro il mio nemico e fracassai lo specchio che finì in mille pezzi sparsi per la stanza. Poi, compiaciuto della mia opera, tornai alle mie faccende.

Quella sera, mentre mi preparavo la cena ero fiero di me. Gliel’avevo fatta vedere.

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“Amore, devo controllare la freschezza”

Il ritorno di Conad il rabarbaro. 

Amore devo controllare la feschezza

Amore, devo controllare la freschezza” dice lui svegliandola in piena notte. Lei si volta sul fianco, non crede alle sue orecchie, ancora intontita. “A quest’ora?” “Si.” risponde lui risoluto. Ma il sogno di un intermezzo focoso in piena notte ha breve durata. Lui, infatti, scende dal letto, si veste e se ne va in negozio a controllare la freschezza di frutta e verdura.

È la campagna istituzionale Conad per il 2013. Lo spot che ogni donna quando lo vede, rivolge al compagno un’occhiata che lo stende. Perché di uomini dediti solo al lavoro, che pensano alla freschezza di patate e ravanelli o di pere e fragole invece dei bollenti ardori delle loro compagne che restano in piena notte in un letto freddo e semi vuoto, ce ne sono. E purtroppo non solo in pubblicità.

Nello spot di cui sopra il tizio esce in piena notte col pigiama sotto al vestito, la barba lunga e il segno del cuscino sulla faccia, saluta il metronotte che ormai lo conosce, tira su la saracinesca del super, accende la luce e via a tastare pere, albicocche e pesche vellutate, sistemare carote, fare piramidi di verze… Infine, soddisfatto, chiude tutto e torna a casa portando con sé un sacchetto. Cornetti caldi per augurare buon giorno alla moglie? No, dentro ci sono le fragole. Forse perché, ritenendole afrodisiache, spera riaccendano la passione che è morta da tempo.

“Sulla qualità nessuno chiude un occhio” recita il claim. E il protagonista dello spot dovrebbe stare con tutti e due gli occhi bene aperti, perché una moglie trascurata fa presto a renderti pan per focaccia. Tanto per cominciare basta che si guardi un po’ di spot. Mugnai dal fascino latino con cui rotolarsi nella farina, brizzolati col sorriso da splendida canaglia che ci prenderesti volentieri un espresso facendolo durare un’ora fino a fascinosi con barba e pizzetto alla Gesù, sguardo magnetico e voce calda per i quali peccheresti a gogò fino a fare cappottare il confessionale con tutto il prete dentro.

Pitt Clooney Banderas

E poi dalla teoria è facile passare alla pratica: idraulici, operai del gas, antennisti rappesentano personaggi mitici delle storielline del tipo “Cielo, mio marito!”, con il malcapitato che finisce nascosto dentro all’armadio o scappa dalla finestra con i vestiti in mano. Un valido suggeritore per offrire materiale umano alle donne è il grande schermo.

Ecco 3 modi che il cinema consiglia alle mogli per distrarsi.

Ad esempio, chiamate il falegname dicendo che non si apre una finestra che dal salone dà sul giardino. Nel frattempo spezzate la chiave nella serratura della finestra e quando l’enegrumeno sudato, dopo i tentativi infruttuosi, dice “Signo’ qui tocca passa’ alla maniere forti”, state pronte perché il momento che tanto aspettavate è arrivato.

Se invece è agosto e il clima è torrido, fate entrare in cucina il postino che vi ha consegnato una raccomandata e offritegli un bel bicchiere d’acqua. Non ve ne pentirete.

http://www.youtube.com/watch?v=-2BWFqtf154

Siete una donna manager? Stuzzicate l’amministratore delegato della vostra filiale di Londra. Sfidatelo a perdere il suo aplomb british. E anche se non si toglie nemmeno il trench rivendetevi la battuta: “Mister, ha uno smartphone in tasca o è contento di vedermi?” Scoprirete che sotto il vestito… tanto!

http://www.youtube.com/watch?v=KB517INhaR0

E per il maritozzo giuggiolone che intanto sta a fare la conta dei ravanelli e dei fichi secchi? Anche per lui ho un suggerimento, mutuato come sempre dal cinema.

Amico, vai in un sexy shop e compra alla tua compagna un completino in latex.

Quando lei lo indosserà non importa se hai la faccia da tonto di Nicola Savino dello spot Telecom (ma che pretendi con una madre come la Maionchi?), indossi orribili pullover a rombi sferruzzati dalla nonna e porti occhiali alla rag. Filini.

http://www.youtube.com/watch?v=jXD0ZdYxOuM

All’inizio dirai “A me piace guardare” ma vedrai che poi passerai all’azione e il gioco vale la candela. E anche lei sarà d’accordo, finalmente.

 

 

 

A proposito di bamboccioni in tv.

bamboccioni in tvQuando vedo comparire sul video la faccia da mollicone di Nicola Savino vessato dalla mamma Mara Maionchi reduce da X Factor confesso che il malcapitato non mi fa nessuna pena.

Una mamma dalla voce così stridula che ti ingozza con maritozzi alla crema (“mangia che sei sciupato”), ti taglia i capelli con la scodella (“ecco, ora sei un ometto!”) o ti infligge la prova di capi d’abbigliamento all’ultimo grido…si ma di di terrore (“ti piace il maglioncino?”) chi la sopporterebbe?.

Invadente la megera sbracata sul divano al fianco condivide la visione della tv della povera stella che chiede aiuto allo spettatore (“vi prego, adottatemi”), mette becco con giudizi senza appello sulle ragazze sulle quali Nicola probabilmente fa pensieri “impuri” mentre lei va a caccia di una nuora per piazzare il figlio tonto.

Gli spot della Telecom dopo mezzo secolo aggiornano la frase cult di Psyco di Hitchcock: “La migliore amica di un ragazzo è sua madre”.

La relazione malsana tra madre e figlio con la personalità della Maionchi che prende il posto di quella del figlio potrebbe avere sviluppi divertenti.

A quando un finale di questo spot-saga con Nicola Savino che sulle orme di Anthony Perkins- Norman Bates caccia di casa la madre salvo poi assumerne le sembianze?

La prima ragazza che Nicola porta in casa dove finalmente spicca la scritta “vacancy” potrebbe finire accoltellata nella doccia o il tecnico della Telecom massacrato sulle scale come il detective Arbogast- Martin Balsam.

Così alla fine il povero testimonial, avvolto in una coperta, potrebbe congedarsi dagli spettatori con l’inquietante sorriso che rivederlo oggi ancora gela il sangue.

Però con la voce fuori campo della immortale Maionchi.

E se una visita nella cantina di casa Savino ci rivelasse il cadavere mummificato della madre su una sedia a dondolo? Ci sarebbe unastanding ovation!

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L’ultimo Giubileo. Nuntio Vobis Gaudium Magnum.

Nuntio vobis gaudium magnum

Celebriamo una nuova fede.

 

Qualcuno in sala regia si ricordava le sgranate immagini di repertorio del giubileo del 2000, ma questo evento li batteva tutti.

Collegamenti in mondovisione con tutti, urbi et orbi, ma anche con le colonie stellari che da decenni vivevano su pianeti perduti e lontani dalla terra parecchi anni luce.

Un evento che avrebbe cambiato le sorti del mondo. Cento miliardi di persone attendevano la risposta. Io avevo il privilegio di viverla in diretta per raccontarla.

Il Sommo Pontefice, il primo di colore, entrò nella sala santa dove la macchina lo aspettava.

Era il computer più potente mai costruito al mondo; tutte le nazioni avevano dato il loro contributo, ci avevano lavorato migliaia di scienziati dopo decenni di esperimenti.

Aveva richiesto oltre venti anni per la costruzione ed un budget con cui si sarebbe sfamato il 75% della popolazione del pianeta per circa 99 anni.

Tutto lo scibile umano era stato pazientemente immagazzinato nella memoria del computer maximo che con i suoi circuiti occupava un’area che avrebbe contenuto un intero stadio, tribune e curve comprese.

L’anziano Pontefice, con passo incerto entrò nella sala bianca asettica.

Cento miliardi di respiri, compreso il mio, furono trattenuti. Il Papa stava per porre la domanda delle domande che da millenni tormenta l’uomo.

La voce gli tremava, nonostante la fede.

Esiste Dio ?”

I detrattori del progetto che paventavano un black out del computer alla domanda con annessa esplosione nucleare caddero in ginocchio folgorati dal ronzio con fiaccolata di luci e suoni che seguì ; prova che il cervellone aveva recepito il quesito, non lo aveva ignorato e stava elaborando una risposta.

Simultaneamente partirono tutte le agenzie stampa, pc, e-mail, telefoni, radio, collegamenti via satellite in ogni parte del mondo per annunciare che fra poco sarebbe andata in onda la nuova versione del verbo.

In meno di 5 minuti in cervellone partorì la risposta. Sputò un foglietto.

Il papa nero, sorpreso da tanta celerità, lo prese tra le mani sudate. Lo aprì. Tutti i monitor del mondo zoomarono sulla sua espressione.

Spalancò gli occhi, il viso gli si contrasse in una smorfia, si portò una mano al petto e si accasciò al suolo come un povero mortale.

Immediatamente la gigantesca sala santa si riempì di persone. Nella confusione generale ebbi la fortuna di pestare il foglio. Lo raccolsi e letta la breve risposta del computer scoppiai in una fragorosa risata.

Sul foglietto, con una calligrafia infantile c’era scritto:

Adesso si.”

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