Storytelling? Oh, my God!

Give way signIl cliente è grosso, molto più grosso di quanto abbia mai potuto invocare nelle mie preghiere più appassionate.
La sede è in via Larga, roba da 9.000 euro al metro quadro.
Via Larga… mi incuriosisce che sia la traduzione di Broadway. Ma qui non ci sono tanti teatri, anche se ogni giorno va in scena la replica dello spettacolo della finanza, degli intrallazzi e di buona parte degli affari milionari di Milano. Succede tutto lassù, ai piani alti, proprio dove sto per andare ora.
(Questa me la segno: magari viene buona per un racconto ).

Ho preso la metro e sono sceso al Duomo, non a Missori: volevo fare quattro passi in più per snebbiare la mente e fermarmi un attimo sul sagrato per una preghierina. Anche se non sono un santo, oggi voglio rendere un piccolo omaggio a don Pietro. In fondo è stato lui a procurarmi questo appuntamento.

Mi ha beccato ieri fuori dalla chiesa. Stavo facendo jogging e mi ha chiamato. Strano che si ricordasse il mio nome: non vado mai in parrocchia, nemmeno la domenica. L’avevo conosciuto al funerale di mio padre e mi limitavo a salutarlo per strada.
Comunque, mi ha fermato e mi ha detto di seguirlo in sacrestia, lo ha fatto con tono perentorio, senza mezzi termini.
Ho cinquanta anni: non avrei niente da temere da un prete, nemmeno se fosse un pedofilo o un pervertito, perciò sono entrato con lui.
Don Pietro non sapeva solo il mio nome ma anche cosa faccio nella vita, per chi ho lavorato e quando. In pochi minuti mi ha fatto il riassunto del mio portfolio.
Non è un uomo che si perde in chiacchiere, quindi ha preso in mano il telefono e mentre componeva il numero mi ha detto – Questi sono interessati a te. Parlaci e prendi un appuntamento –
Un saluto, due convenevoli, poi mi ha passato Myriam. Questo è il nome con cui si è presentata “l’assistente generale”.
La donna, con un marcato accento israeliano, mi ha dato appuntamento per oggi.
-Pietro le darà le coordinate. Grazie, arrivederci –
Lo ha chiamato Pietro senza “don”.
Per un attimo mi chiedo che rapporti abbiano questi due.
Aspetto il commento del prete che mi sta di fronte. Sembra che la lunga barba parli per lui. Mi dice solo di non fare altre domande e di non preoccuparmi. Poi scrive alcune note su un foglietto e me lo porge salutandomi.
Voglio fidarmi. In fondo non ho nulla da perdere.
Sul foglietto c’è scritto l’indirizzo e il nome della persona che dovrò incontrare: Angelica Messi.

Arrivo all’indirizzo indicato. So che devo andare all’ultimo piano. Il portinaio sembra il gemello di don Pietro. Mi faccio annunciare.

Arrota la r del mio nome e aspira alcune consonanti: è lo stesso accento della donna con cui ho parlato al telefono. Mi dice di prendere l’ascensore e schiacciare il bottone col triangolo.
Vede la mia faccia perplessa, sorride e aggiunge – È all’ultimo piano. Il triangolo è il logo della società-

Dopo il settimo piano c’è quello col “triangolo”. Ci arrivo in un attimo e in un silenzio che sembra irreale. Strano per un palazzo degli anni 30. probabilmente hanno rifatto gli ascensori da poco.

Sulla porta non c’è un nome, solo quel triangolo equilatero con la base parallela al piano orizzontale. Di fianco non c’è un campanello. Mi guardo intorno: non capisco come entrare. Sfioro il triangolo con la mano: si illumina, emette un ronzio bassissimo, la porta si spalanca.

Il pavimento in betulla sbianciata accoglie il mio primo passo. Una voce mi dice di entrare e proseguire fino alla porta in fondo, dritto davanti a me. Non capisco da dove venga ma l’accento è sempre quello. Non mi chiama dottore, signore o altro, non scandisce il mio cognome, dice solo – Benvenuto Andreah, vieni puhre ahvantih- .
Percorro il corridoio. Ai due lati ci sono finestroni in vetro dal pavimento al soffitto. Sento il brusio di gente che lavora. In fondo, la porta a vetri è aperta.
Myriam mi dice di accomodarmi sul divanetto. Si presenta, mi ricorda che ci siamo sentiti al telefono e aggiunge semplicemente – Entrerai fra un attimo- .
Ha una scrivania azzurrina, il mio divanetto è dello stesso colore. Guardo fuori dalle finestre. È raro per me trovarmi a queste altezze. A sinistra c’è la torre Velasca, dritto davanti a me vedo le guglie del duomo.

È strano che mi abbia dato del tu, è strano che sulla sua scrivania non vi siano computer, telefoni o altro.
Non voglio pensarci. Guardo fuori. Dal lato del duomo vedo avvicinarsi un aereo. Non dovrebbero volare così bassi. Lo vedo sempre più vicino, sta per precipitarci addosso. Mi alzo di scatto, poi resto di pietra.
Myriam ride, si scusa – Non è reale – Dice – Le finestre sono schermate per il rumore e il reparto picture motion si diverte a far passare queste immagini per impressionare i visitatori. Sta’ tranquillo-
I battiti sono su un altro pianeta ma il tono di Miryam riesce a calmarmi.
Pochi attimi dopo vedo un leggero bagliore che dalla sua scrivania le illumina il volto. Ha le fattezze delle madonne rinascimentali, materne, rassicuranti. Non le avrei mai immaginate con quell’accento mediorientale e dietro una scrivania.
Sorride, si rivolge a me e mi invita a entrare nella grande porta a vetri

-Il capo ti aspettha-
Non il “presidente”, il “direttore”, la “signora Messi”: semplicemente “il capo”.
È strana lei, è strano il posto, nemmeno io sono tanto normale, nessuno che faccia il mio lavoro lo è. Entro.

Angelica Messi è completamente diversa da quello che mi aspettavo.
Non ha l’aspetto aggressivo della manager, non sembra una donna tutta lavoro e lavoro che se ne frega dell’estetica e nemmeno il classico mignottone arrivato in alto grazie a virtù poco visibili fuori dalla camera da letto.
Indossa una lunga camicia coreana color cotone naturale, nessun anello, collana o braccialetti.
Ha i capelli scarmigliati lunghi poco oltre le spalle, di una tinta che non avevo mai visto: sembrano cambiare ogni secondo dal celeste chiarissimo al biondo platino.
Mi viene incontro tendendomi la mano, gliela stringo.
– Benvenuto, accomodati. Ci diamo del tu?-
La temperatura della mano mi mette a mio agio. Mi siedo su una sedia austera, chiara come i pochi arredi della stanza.
Nemmeno sulla sua scrivania ci sono computer, fogli, telefoni o qualunque altro oggetto.
L’unica cosa diversa dalla sala dell’assistente è la sua poltrona: sobria ma sormontata da un grosso triangolo luminoso che le sovrasta la testa come una corona.

Mi squadra per un attimo e poi parla. È la prima persona senza accento che sento da quando sono entrato in questo posto.
– So già chi sei, cosa fai e cosa puoi fare per noi. Non importa come lo so. Ti teniamo d’occhio da molto tempo. Piuttosto, vorrai sapere cosa facciamo qui e perché ti ho convocato…-
Sto per aprire bocca ma mi ferma con un gesto.
– Facciamo molte cose, fra queste abbiamo un dipartimento che si occupa di storie. Parlo di storie di persone. Per ognuna ti daremo un nome, un cognome e degli spunti. Tu scriverai la storia. Benvenuto fra noi, cominci oggi. Domande?
– Benvenuto? Sì, ho bisogno di lavorare e questo storytelling potrebbe anche piacermi ma chi ti dice che accetterò?-
Mi guarda come la più tenera delle madri, la più seducente delle donne, la più convincente degli account.
– Oh, non rifiuterai. Non puoi rifiutare. Tu sai scrivere ma non sei eccezionale, te lo dico francamente, però a noi serve la tua anima, ci serve che scriva alcune di quelle storie per noi. Lo farei io stessa e ti assicuro, senza presunzione, che sono molto creativa, però non posso stare dietro a tutto.
Oh sì, accetterai perché per uno come te questo è il paradiso-
Mi sento frastornato. Non ho il coraggio di chiedere altro, non parlo di soldi, di orari, di impegni. Aspetto a bocca aperta che mi dica altro.
– Myriam ti accompagnerà nella tua stanza e ti darà tutte le istruzioni-
Sfiora un punto della scrivania e ne estrae una tesserina metallica luminosa, me la porge come se fosse la sua cosa più preziosa.
– Questo è il mio…chiamiamolo biglietto da visita…È dotato di una tecnologia che usiamo solo qui. Se sarai in difficoltà ti basterà sfiorare il triangolo e io vedrò cosa posso fare.
Ah, posso fare molto. Ora ti devo salutare. A presto-
Sfiora un altro punto della scrivania e l’assistente sembra materializzarsi dal nulla. Saluto la signora Messi e seguo Myriam.
Il biglietto da visita è una piastrina metallica luminescente che sembra tagliata al laser. Al centro c’è il triangolo e sotto, il nome del capo: Messi A.

Il cliente è grosso, così grosso che per lavorare qui dentro non avrò più una vita mia. Letteralmente.

Sticazzi-writing.

STICA

Pre Sticazzi 1

In agenzia l’unico che ama il prefisso web è Pariàno, il webmaster. Lui lo ama perché il suo lavoro è nato con internet, noi no.
Noi siamo grafici, copy, art.
Noi esistevamo prima del web, prima della TV, prima dei magazine e prima della radio.
La prima campagna che ricordiamo fu veicolata a voce, ebbe un successo incredibile e una risonanza mondiale. Era opera di un gran creativo, forse il più grande creativo di tutti i tempi.
Il claim era FIAT LUX. Oltre ai premi della critica ricevette le congratulazioni personali dell’Avvocato, quello con la A maiuscola.
Così era in principio, prima di tutto quello che sappiamo, prima di tutto quello che facciamo oggi.
Per questo non sopportiamo quelli che parlano di webcopywriting o di webgraphic come se fossero qualcosa di un altro mondo. Per questo, pur amando il web per le sue possibilità espressive, lo consideriamo un mezzo come altri. Per questo quando qualcuno sostiene il contrario rispondiamo   E sticazzi? –

 

Pre Sticazzi 2

In agenzia abbiamo un copy fenomenale, uno che, per dirla alla maniera dell’ispettore Callaghan, “Mangia crusca con tutta l’accademia e caca testi che ammazzano qualunque resistenza all’acquisto”.
Ma più di tutto, Erberto Novolino è noto per essere l’unico al mondo capace di spiegare e declinare con l’intonazione della voce tutte le accezioni dell’espressione Sticazzi.

 

New business? Sticazzi.

Ovvero, la rivelazione della santissima trinità SEO/SEM/Webwriting e dei suoi poteri.

Un lunedì mattina, Mino, il grosso grasso titolare greco, si presenta in riunione accompagnato. Lei è bionda, alta e bellissima: praticamente la madonna. Mino ci fa un bel discorso sulla crisi del settore, sulla necessità di orientarsi verso new business, sull’importanza dell’aggiornamento.  Noi sentiamo puzza di ristrutturazione (leggi: licenziamento). A un certo punto, Mino sorride e annuncia l’apertura della nuova divisione dell’agenzia: la scuola “superiore” di web marketing/webcopywriting. Dopodiché ci presenta la bionda. Lei è Svetlana, esperta SEO/SEM e chissà che altro. Sarà per colpa della minigonna con vista sulla perfetta depilazione inguinale oppure delle strategiche procacità messe in evidenza da un magnifico wonderbra (se mai ce ne fosse stato bisogno) ma cominciamo a vederla un po’ meno madonna.

Fatto sta che Svetlana comincia a parlare col suo accento di Cacàia Russìa, qualcosa come – Raguazzi, nuoi duobbiamo ottimizzuare le risuorse e farluo juast in tuaim puer puenetruare un mercuato muolto compuetitivo… –
Senza far uso del dizionario Idiotmktg/Italrusso comprendiamo che dovremo essere noi i docenti di questa new business area (con lo stesso stipendio di prima) sotto la sua supervisione.
Alla fine, Svetlana ci distribuisce delle dispense, perché sostiene – Questuo è aggiuornamuento puer vuoi viecchi crìativui. Questuo è mio metuodo infallibuile per fare divuentare vuoi, ignuoranti di web e comunicatuori spienti di old miedia, vueri espuerti di SEO/SEM/Webcuopywriting –
Ma non è finita.
Svetlana chiude con l’assegnazione del compitino – Io e Mino staruemo viua unua settimuana per cuontatti novj clientui. A nuostro rituorno vuogliamuo veduere campuagna viral per nuova scuola, già pruntua con montuagna di contattui. Seguite mio metuodo infallibuile –
– E sticazzi! – Esclama Erberto .
– Bruavisimo! – Risponde Svetlana

– Aggressivui, incazzatui, proattivui. Cuosì vi vuoglio: propriuo cuome sticatzi.

Questa è la paruola che vuoglio sentire -.

 

Mecojoni/Sticazzi.

Ovvero, come mandare in vacca una business idea applicando le tecniche più avanzate SEO/SEM/ Webcopywriting.

Due giorni a leggere, studiare, tenere sullo stomaco, vomitare le muagiche dispense della sorella markettara di Natasha Stephanenko.
Due giorni a discutere di Header 1, Header 2, Header elevato alla enne, titoli a effetto, effetto sòla, numeri-e-parole, parole-e-numeri, infografica & freccette, testimonianze di casi di successo di testimonial sconosciuti, rapporti di conversione, conversione al dio SEM, click in abbondanza come al poligono di tiro, ranking e leadership, leadership di tremila aziende nello stesso settore e nella stessa area geografica, elenchi puntati, elenchi numerati, elenchi della spesa e conti che non tornano, offerte imperdibili, offerte irripetibili, offerte che non si possono rifiutare, blocchi di testo, blocchi di informazioni, blocchi mentali, caption captiose, teaser tesi alla fregatura, messaggi d’impatto, impatto dei satelliti e tutto quello che avevamo già visto, sentito e (ahinoi) applicato nelle nostre precedenti e misere vite di comunicatori degli old media.
Erberto Novolino esprime il suo parere illuminante – Me cojoni! –
Lui conosce bene la differenza fra “me cojoni” (accidenti) e “sticazzi”(uno dei suoi significati ma non “accidenti”) e io so che quando resta stupito è perché sta per concepire qualcosa di stupefacente.
Detto, fatto. Erberto mi espone l’idea di partenza e in un paio di giorni implementiamo un sito farlocco della scuola di web-so-tutto-io col nome della nostra agenzia. Una parte la lasciamo under costruction e in un’altra mettiamo un form per la richieste di info che arrivano direttamente sulla mail privata di Mino. Il resto del gioco consta di qualche landing page “da manuale-metuodo infallibuile” e un po’ di banner sapientemente piazzati e scritti.
Il risultato non è la redemption luminosa di FIAT LUX ma ci va molto vicino.
In due giorni la posta di Mino è intasata dalle richieste di info.

Come abbiamo fatto?

Abbiamo infarcito i soliti discorsi di successo con tanti di quegli sti cazzi e me cojoni che gli utenti, completamente disorientati, storditi, incapaci di prendere una decisione cosciente ma fatalmente attratti dalla volgarità del discorso, si sono precipitati a compilare il form per le info.

In altre parole abbiamo seguito alla lettera i consigli della guru coscialunga Svetlana.

Va da sé che lo sputtanamento dell’agenzia è stato pari al successo della burla, che Svetlana è andata a zarinizzare qualcun altro e che Mino ci ha licenziati pur comprendendo il suo errore.
Certo, non abbiamo fatto una mossa molto furba per la nostra carriera ma, secondo voi, potevamo lasciare che l’ultima bionda montata ci chiamasse vuecchi criativi ignuoranti di web e comunicatuori spienti di old miedia e restasse impunita?

La risposta, amici miei, è scritta nel web:
STICAZZI.

Grandi copy del passato n.2

Continua la saga dei grandi copy del passato. Questa settimana tocca a Virgilio, che ai tempi tentò anche la carriera di veterinario e avvocato, e aveva i suoi bei problemi per arrivare alla fine del mese. Quando non era impegnato a scrivere, si dilettava come guida turistica, a volte accompagnando nei suoi “gironi” anche altri illustri colleghi…

grandi copy del passato 2 virgilio

Al lavoro l’anima, al piacere il corpo (e viceversa).

I.

L’assistant ha il microfono che le sfregia la guancia dall’orecchio alla bocca e il badge con il nome sulla camicetta. C’è scritto Sheila ma si chiama Concetta. Le dice di entrare pronunciando il suo –Può entrare– come se avesse appena annusato un cumulo di letame.

Il tizio dietro la scrivania ha la faccia color carota-lampada-UV, una nuance appena più brillante delle pareti. Le fa cenno di accomodarsi mentre finge di leggere il tablet, poi le porge la mano attaccata al braccio da un enorme Panerai luminor e si presenta – Piacere, Massimo Effetto –

Aspetta la reazione ostentando la dentatura bianco diamante e, vedendo che non arriva, aggiunge – … Col minimo sforzo! Ma qui sono noto come “il Massimo” -.
Deborah Collacca, per gli amici Debbi, resta interdetta ma sa cosa fare in queste situazioni: china la testa di lato, accenna un sorriso a metà labbra e sbatte le ciglia. Poi stringe la mano del manager lasciandola nella sua un attimo più del necessario.
– Bene, Deborah, lei sa cosa facciamo qui, vero? –

Debbi risponde col tono più vanesio che conosce – La tivvùù !-
Intanto fa ondeggiare la massa di extension bionde come se dovesse spazzare il pulviscolo dall’aria. Massimo Effetto continua a sorridere anche se il suo sguardo si fa interrogativo, poi riprende il controllo, accavalla le gambe e dà un leggero schiaffo all’aria davanti a sé come per liquidare una battuta della ragazza .

– Siamo un grande gruppo. Facciamo broadcasting, production, entertainement, pay-per-view, indagini statistiche, market research, persino comunicazione politica. Siamo giovani e dinamici… e io sono l’executive manager di questa divisione. Ma lei ci conosce, come tutti d’altronde!-

I punti esclamativi sembrano uscirgli dalla bocca orizzontali ogni volta che allarga le vocali a dismisura.

– Maaaaa, mi parli di lei –

Debbi gonfia il petto, tanto che Massimo immagina che il top si laceri come i vestiti dell’ incredibile Hulk. Con la differenza che Debbi non è verde e attira molto di più lo sguardo.

– Ioo…sono una ragazzaaa, come diree? Giovane e dinamicaa. Mi so muoveree a mio agioo in ogni ambientee. Sono naturalmente portataa per le pierree e se interfaccio con il clientee miro solo alla sua soddisfazionee -.

Massimo Effetto deglutisce vistosamente, poi torna a mostrare l’opera del suo odontoiatra da 400 euro a seduta.

– Bene, moolto bene, proprio okkei! Posso darti del tu, vero Deborah?-
Labbra a cuoricino, ciglia mobili come ali di colibrì, la risposta arriva insieme a un accavallamento di gambe assassino – Ma certo, peròò per gli amici sono Debbii…E TUU sei mio amico, veroo? –
– Certo! Ho già parlato con-chi-sai-tu –
Rivolge uno sguardo alla foto 70 x 100 alla parete.

– Trovare una mansione a una ragazza così brillante non sarà un problema, anzi, sono sicuro che farai risplendere quest’azienda con le tue capacità.
Piuttosto, se sei libera potremmo parlarne stasera a cena, dovremmo trovarti un titolo adatto… -.

Debbi lo guarda seria. – Sì, stasera a cena, zio Milvio mi ha detto tutto, ma proprio tutto di tee. Sarà un vero piaceree. Te lo assicuroo! Maa, per il titolo… avrei un’ ideaa.  “Senatrice” mi invecchiaa. Che ne dici di Onorevole? –

 

II. 

Con questa faccia arancione faccio vergognare persino la mia ex moglie, persino quando le arriva l’assegno mensile che la fa vivere piuttosto bene.
Ho 56 anni e più lifting di una diva di Hollywood, ho una collezione di orologi che farebbe la felicità di qualunque topo d’appartamento, giro in Cayenne a Sankt Moritz e in Maserati GT cabrio a Montecarlo. Non mi sono mai laureato ma mi faccio chiamare dottore. Conosco, forse, dieci parole di inglese, quelle che mi servono a dire quello che faccio.
Ma dovrei dire “quello che non faccio”, perché qui dentro lavoro e do ordini a casaccio solo perché la mia famiglia ci ha messo un sacco di soldi.
E poi conosco bene Milvio, il presidente. Ci diamo del tu, pranziamo insieme, qualche volta giochiamo a golf. La mia famiglia, oltre ai soldi, gli porta un bel po’ di voti in parlamento.
Non ho più una moglie ma ho una serie così numerosa di fidanzate che non ricordo nemmeno più i loro nomi.
All’università ci andavo. Ero anche bravo, studiavo seriamente, volevo laurearmi e poi prendere un MBA in USA. La famiglia mi mandò a lavorare in questo posto.

Avevo 22 anni, mi misero in mano un sacco di soldi, la Bentley con l’autista e un appartamento di 160 metri quadri in corso Monforte.

Rimpianti?

Dover dire a un’emerita ignorante come quella che mi trovo davanti, sì, questa “Deborah Collacca per-gli-amici-Debbi”, un po’ troia e altrettanto furbetta, che è una ragazza brillante.
È la mia nemesi e me la godo.
Vogliamo dare un titolo alla mia storia?
Senza vergogna.

 

Al lavoro l’anima, al piacere il corpoIII.

Il mio nome non è Deborah Collacca e nemmeno Debbi-per-gli amici.
Mi chiamo Frederike Longhi Faust. Mio padre era l’avvocato Longhi, mia madre, Heinni Faust, una specialista in telecomunicazioni nell’ex DDR.
Mi sono ammazzata di studio fino a pochi anni fa.
Ho una laurea presa alla Bocconi, conosco alla perfezione il tedesco e l’italiano, ho il GMAT, me la cavo bene con lo Spagnolo e il Francese. Ho un master MBA.
Dopo il master non ho fatto altro che lavorare, uno stage dopo l’altro, una retribuzione da miseria dopo l’altra per due anni. Uscivo di casa alle sette del mattino e rientravo la sera tardi. Pochi week end liberi. Il mio ragazzo mi ha lasciato perché non ci vedevamo più. Le amicizie non sapevo più cosa fossero. Avevo solo contatti sporadici.
Per fortuna c’era la famiglia che mi sosteneva.
Sì, la famiglia.
Mio padre è morto per il dispiacere. Stava benissimo, ma quando gli dissi dell’ennesimo stage ebbe un infarto fulminante. La mamma lo ha seguito pochi mesi dopo.
Ero stata una bella ragazza ed ero diventata una specie di mostro: culo largo, faccia brufolosa, occhiali spessi, un po’ gobbetta, seno cadente. Il tutto a 27 anni.
La vodka e la cellulite diventarono le mie amiche inseparabili.
Una mattina mi svegliai sul pavimento con la faccia incollata a un giornale di gossip.
C’era la foto di una di queste puttanelle a seno nudo. Con la bocca impastata lessi l’articolo. Quella era l’ultima fiamma di un noto politico. Sembra che il tizio le avesse regalato una casa e una macchina. Lei sorrideva.
Buttai via tutta la vodka che avevo in casa e presi una decisione.
L’ultimo anno cambiai in tutto.
L’ultimo anno cambiò tutto.
Via il seno vecchio. Il chirurgo me ne fece uno nuovo, abbondante, da infarto.
Via le rughette. Un lifting mirato mi regalò una pelle da pubblicità. Via gli occhiali da nerd. Un bel paio di lenti a contatto blu e tanto mascara per uno sguardo da favola. L’ alimentazione sana e le sedute estenuanti in palestra completarono la prima parte del piano: ero una strafiga.

La seconda parte comprendeva la self-promotion: frequentare i locali giusti, parlare e muovermi come le cacciatrici di fama, ma senza confondermi con loro. Niente bamba se non con persone che potevano introdurmi in qualche giro importante.
Per coltivare certe virtù, quelle che aprono la cassaforte dei potenti meglio di una combinazione a dodici cifre, avevo ingaggiato una escort bisex. Lei mi insegnava tutti i segreti del mestiere, tutti quelli che non avevo appreso nella mia vita precedente.
Non ero tanto stupida e in poco tempo riuscì ad agganciare Milvio. Ci riuscii grazie all’amicizia con un suo alto dirigente, uno che al sesso spinto preferiva le confidenze e qualche palpatina, così, giusto per sentirsi più giovane.

Milvio amava farsi chiamare zio: era l’unica cosa in cui appariva autoironico.
Lo conquistai, ci andai a letto dieci volte, non una di più.
Avevo firmato il mio patto col diavolo.
Solo che questo non puzzava di zolfo e non aveva le corna. In compenso era liftato, bassino e credeva di essere simpatico con le sue battutacce da caserma.
Piccolo dettaglio: non avevo firmato un documento col sangue, solo col mio corpo fra le lenzuola.Il paradiso e l’inferno, quando li frequenti da vivo, non si distinguono tanto bene.

Ora sono qui, a fingermi un’emerita cretina con lo pseudonimo da shampista, di fronte a un idiota con la faccia arancione che crede di essere un grande manager ma non è migliore di me.

Per la prima volta nella vita otterrò quello che voglio.
Almeno credo.
Questa è la mia storia. Se dovessi raccontarla le darei un titolo: Al lavoro l’anima, al piacere il corpo (e viceversa).

 

 

 

Ridotto in questo stato dal nipote.

ridotto in questo stato dal nipoteStoria di parenti serpenti e creativi incapienti.

Il nepotismo è il principale elemento distorsivo della concorrenza.
È un fatto inopinabile, come la trasparenza dell’acqua pura e l’insofferenza degli Italiani verso l’autovelox.

Il respiro profondo e il battito accelerato mi dicono che l’incubo è finito. Ho in mente qualche frammento: un tizio che mi parla di lavoro, il sapore della birra in bocca, il caldo sulla pelle. Meglio dimenticare.
Una goccia di sudore mi bagna la tempia.
Passerà.

Era una bella mattina di maggio e avevo bisogno di ispirazione per un lavoro. La consegna era prevista per la settimana successiva. Così decisi di fare le cose per bene e prendermi i miei tempi.
Un mestiere come il mio, il cui risultato finale parla alla gente e la convince a fare qualcosa, postula un rapporto col mondo esterno, una relazione fatta di conoscenze che si sommano e si intrecciano, un sacco delle meraviglie che va riempito giorno per giorno e, talvolta svuotato, con ogni mezzo possibile.
Internet ti dà la varietà di mille pareri su milioni di argomenti e di idee.
I libri ti regalano la profondità dell’immaginazione.
Ma nulla può sostituire l’acutezza visiva e intuitiva dell’osservazione diretta.
Così, quando ho tempo e ho bisogno di ispirazione, cioè di raccogliere quegli elementi che mi fanno costruire un’idea differenziante, cerco di uscire di casa e fingere di bighellonare.
È il miglior modo per vuotare il “sacco delle meraviglie” e riempirlo con qualche nuova, utile cianfrusaglia creativa.

Presi il treno, poi la metro e camminai fino alle colonne di San Lorenzo.
Quello, per me, è un luogo magico. Parlo di uno di quei posti dove non so esattamente cosa vado a fare ma ci vado. E quando torno a casa ho l’ispirazione in tasca.
Al baretto presi una birra, mi sedetti sulle scale del sagrato e, col taccuino e la penna in mano pronte a tradurre le idee in segni d’inchiostro, cominciai a guardarmi in giro.
Dall’altra parte della piazza c’era un barbone. Non uno qualsiasi, aveva in testa un cappello a tesa larga che ne nascondeva in parte il volto, indossava pantaloni griffati e sneakers costose, un po’ consumate ma ancora dignitose.
Ai suoi piedi, davanti al cappello per raccogliere l’elemosina, c’era un cartello nero con una scritta in bianco: “ Ridotto in questo stato dal nipote”.
Pensai a una burla. Mi avvicinai ridacchiando e, indicando la scritta, gli dissi – Se mi spieghi cosa significa, ti do un euro. –
Sentii solo l’odore dell’alcol e la risposta monocorde – Per un euro ti dico solo grazie. Se mi offri due birre ti racconto tutta la storia. –
Tornai dopo un minuto con le birre, gliene apersi una e ascoltai.

– Sei un copy, vero? Vi riconosco a naso.
Meglio così… Non perdo tempo a spiegarti tante cose.
Anche io ero un copy, freelance. Lavoravo con diversi art, web designer e altra gente del genere. Facevo anche qualche lavoro completo di grafica, ma solo roba facile. Sai com’è: ognuno fa il suo mestiere.
Per fartela breve, una mattina vado col mio designer da un cliente. Gli portiamo un progettino del lavoro e a lui piace. Contenti perché con l’anticipo ci pagheremo le assicurazioni delle macchine, gli mettiamo sotto il naso il preventivo da firmare.
Lui lo guarda, esamina per bene tutte le voci, pondera, ci scruta dubbioso, torna a esaminare le cifre soffermandosi col dito come faceva la prof a scuola sul registro prima di interrogare. Guarda me, guarda il mio socio e dice che i 2.000 euro-stampa-esclusa sono troppi.
Fin qui nulla di anormale. Ci aspettavamo che avrebbe tirato sul prezzo e avevamo maggiorato il preventivo di un buon 15%. Il problema è che subito dopo la spara grossa. Una cannonata nell’alba di un fiordo norvegese (uno dei posti più silenziosi al mondo). Ci dice che suo nipote gli fa lo stesso lavoro per 100 euro.
Alex, il mio socio, farfuglia qualcosa a proposito della qualità del lavoro, del nostro portfolio che parla da solo, degli anni di mestiere, del tempo e dell’impegno che dedichiamo a questo lavoro.
Il cliente se ne frega. Il nipote è un laureando in scienze della comunicazione, secondo lui è un genio.
Noi pensiamo che sia una scusa per farci abbassare il prezzo. Proponiamo uno sconto, poi il pagamento a 120 giorni: niente da fare.
Cliente perso. Non ne vale la pena. Punto e a capo. –

Si interrompe.
La prima birra è finita, afferra la seconda e riprende.
– Un mese dopo vengo a sapere dal figlio di un amico che il “nipote” è davvero un laureando in scienze della comunicazione, che ogni sabato sera, quando lo zio passa la serata dall’amante moldava, si fa lasciare le chiavi del suv col pieno. In cambio gli fa qualche lavoretto. Quanto all’essere un genio… be’, a scopiazzare sono capaci tutti. Tanto suo zio non se ne accorge.
Da lì in poi c’è stata una specie di epidemia di nipoti sapienti, parenti serpenti e lavori in economia.
Lo vedi quello che c’è in giro, no?
E per me è cominciata la discesa: sempre meno soldi, qualche lavoretto malpagato dalle agenzie, via la casa, via l’auto. Poi, la strada. Ora siamo qui. Si vive anche di solo sole, di birra e qualche spicciolo. –

Tacque. Un silenzio lungo come la delusione. Forse si aspettava ancora qualche moneta.
Per la prima volta mi guardò.
Per la prima volta riuscii a vederne la faccia: fu come guardarmi allo specchio. Invecchiato, stanco e ridotto male.

Una goccia di sudore mi bagna la tempia.
Passerà?

Errore umano.

Errore umano… o errare umano?

Fra un uomo e una donna a volte scocca una scintilla.
A volte è come quelle delle candele che bruciano carburante e fanno andare i motori.
Altre volte è come quella che accende un fiammifero e rischiara la notte.
Meno spesso è una scintille maledetta, nata per un cortocircuito e destinata a scatenare incendi.
Fra me e Gila poteva solo fare disastri.

Side A

Lunedì mattina, ore 9.00.
Progress meeting nella Panic room, come ogni inizio di settimana.
A dispetto del nome, non è una camera blindata assolutamente impermeabile alle aggressioni esterne. La Panic room è soltanto la saletta riunioni dove, oltre al tavolo e alle sedie, c’è la brandina di Panic, il cane dell’agenzia.
Panic è un Rottweiler di 65 chili, tutto muscoli e mascelle. In teoria dovrebbe occuparsi del recupero crediti ma con quello che l’agenzia spende in palline di gomma per tenerlo tranquillo ci costa più di uno stipendio regolare (che nessuno di noi percepisce).

Ci siamo tutti, tranne Pippo che ha il ritardo nel DNA e Gila che il lunedì ha il fuso orario sul giro di locali della domenica sera. Quando arrivano, Panic dimentica la pallina, sbava su Pippo, sbava su Gila, salta sul tavolo, fa tre giri su stesso slittando sul cristallo e si butta fra le braccia di Mino, il big boss.
Mino Solenne assomiglia al suo cane. Fra i due ci sono poche differenze: Mino pesa circa 120 kg ma non sono muscoli, Mino non divora palline di gomme, Panic si crede un cagnetto mentre Mino si crede il nuovo Jackson Pollock. Entrambi ringhiano e sbavano.

Ristabilito l’ordine e data una nuova pallina a Panic, si parla di lavoro. Si assegnano i compiti per la settimana, si fissa una riunione nel pomeriggio per confrontare le idee per un ad sull’aceto balsamico. Ci sbrighiamo perché abbiamo un incontro con un cliente in mattinata.

Le proposte sono pronte, belle attaccate sul cartoncino, il rational ordinato, punto per punto. Manca solo la relazione per il cliente col survey e la strategia di comunicazione.
Questa volta l’ha scritta Mino perché io ero impegnato in altre cose. Venerdì ho chiesto a Gila di editarla perché non mi fido molto dell’Italiano di Mino. Non è che Gila sia una maga della lingua ma ha pur sempre una laurea.
Gila è una stagista. Cosa faccia in agenzia non l’ho ancora capito. Non si occupa di grafica, non produce idee, non scrive un titolo e tanto meno un testo.
Però so che suo padre è uno di quelli che ci permette di pagare l’affitto e qualche altra spesa e so anche che quando vengono i clienti nell’ufficio di Mino, lei sfodera tutto il suo charme da minigonna ascellare e finge di prendere appunti. Mino l’adora, i clienti l’adorano, Pippo la venera, Antò si associa a Panic nello sbavarle dietro.
Io, per quanto Gila sia dotata di un trittico CTL (Culo-Tette-Labbra) di tutto rispetto, non la sopporto. Come non sopporto tutti i cialtroni.
Gila passa le sue giornate in ufficio chattando e ascoltando musica. Ogni tanto si alza dalla sedia e fa la sua sfilata sui tacchi da brivido ancheggiando fra la stanza dei creativi, l’ufficio di Mino e l’amministrazione. Mentre cammina canta the girl of Ipanema sillabando du-du-du du-duddu da- da-da. Perché lei è per metà Brasiliana e ci tiene a farlo sapere a tutti.
Quando fa il suo spettacolino, Mino rotea gli occhi, a Pippo viene il torcicollo, Piero il contabile collassa, Antò suda. Io me ne frego. La guardo senza scompormi e le porgo un foglietto su cui scrivo cose come “Sarebbe carino che fingessi di lavorare” oppure “attenta a non sbatterti troppo: potresti spezzarti un’ unghia”. Gila non risponde mai . So che mi odia. E so che non ama nemmeno Panic perché le rovina il trucco con le sue effusioni.

Guardo la relazione per il cliente. È piena di frasi senza senso. Chiamo Gila in disparte e le chiedo spiegazioni. Lei, senza scomporsi, sbatte le ciglia e risponde col suo strano accento – Guarda che l’ho fatta passare tuta al corettore di Word. Se non siete capadj di fare il vostrj lavvoro non prendertela con me-
Dovrei urlare ma in mente ripeto un mantra -I’m an English man in Naples. So, I don’t scream – conto fino a 15 e poi le dico con tutta la finta calma di cui sono capace – Gila, tu lo sai che il correttore automatico non vede l’errore umano, vero? Lo sai che corregge la grammatica ma non la sintassi, vero? Ecco, fai una cosa buona per te stessa: cerca di non mettere più piede in questa cazzo di agenzia, di’ a tuo padre che vuoi fare qualcos’altro nella vita. Poi evita di fare qualunque altra cosa. Trovati un uomo ricco, sposatelo e campa tranquillamente a Ipanema o dove cazzo ti pare, ma porta il tuo errare umano sculettando senza senso lontano da qui.-
Me ne vado nella Panic room, do un paio di cazzotti in testa a Panic che gradisce e mi addenta un polpaccio senza farmi male. È solo il suo modo bestiale di giocare.
Riscrivo in fretta e furia la relazione, la stampo e sono pronto.

Mino mi chiama per andare dal cliente. Gila non viene con noi. Il cliente è una specie di bigotto e ci manca solo che ci prenda per un’agenzia di escort. Poi stamattina la deficiente si è vestita come se dovesse andare a battere. Dico a Mino che ci vediamo al cancello perché ho lasciato le sigarette nel cassettino dello scooter. Ho bisogno di camminare per qualche metro.

Sulla discesa che porta all’uscita vedo la Smart di Gila che accelera. È troppo veloce. E io sono troppo spaventato per schivarla. L’ultima cosa che noto è la sua faccia. Sembra spaventata. Avrà capito cos’è l’errore umano?

Side B

Cajo, otro retardj.
La Smart non partiva. Per fortuna c’era il vicino del terso piano, quello tanto gentile. Ha fatto qualcosa con due cavi. Gli ho dato un bascio ed è felisce.
Da quando papà mi ha tagliato i viveri devo fare la cameriera di sera e la mattina sono uno strascio.

9.50
Trovo Pippo sulla porta. Ha le palpebre da Cocker. È in piedi ma dorme come uno sciombi.
Entriamo. Panic mi corre incontro, sbava. Fa casino.
Panic è il cane dell’agenzia. Vive qui in sala riunioni. È un cane merdojo che manda in giro scialiva, salta addoscio e morje. È uguale al padrone, solo un po’ meno grascio.
Cajo, devo avere una tetta che sporge dalla camija perché me la guardano tutti.
Sorrido ma penso a svegliarmi.
C’è anche lo stronsjo. Quelo non manca mai.
Dovrei esjere la sua stageuse ma finge di non notarmi. Secondo me è un gay represcio.
Gli ho chiesto qualche volta di fare qualcosa, Gliel’ ho chiesto in modo jentìl’, ma lui mi ignora. Forse pensa che io sia defisciente.
Mi chiede quella cajjio di relascione. Gliela do come se foscie la coja più presciosa che ho.
La guarda e mi chiede che cajo ho combinato. Discie che è piena di fraj sensa senso. Spara qualcosa a propojto dell’errore umano.
Gli dico che l’ho fatta passare tuta col corettore di Word e che se non è capaj di fare il suo lavvoro non deve prendersela con me.
Mi guarda fijo per qualche momento poi viene fuori con un cajatone che capisco fino a un certo punto. Parla di errore umano, di errare umano, mi umilia.
…Non l’ascolto più. Per oji ho finito. Vado da Mino che mi capisce e gli dico che non mi sento bene . Vado via. Sento che mi guarda. Lo fa sempre quando sono girata.

Mi ha fatto incajare quelo stronsjo.
Se penso che oji ho messo le mie scarpe preferite, quelle col tacco 13, il lascetto doppio e il diamantinho sulla fibbia…
Salgo sulla Smart, ascendo. Meno male che è partita.
Guardalo là quelo stronsjo, fa il guardiano di sto cajo davanti al canscello.
Prima o poi quel gay merdojo qualcuno lo fa fuori.
Ma cajo, perché ascelera così?
Oh Jesùs, si è rotto il tacco…Si è incastrata la scarpa.
– Cajo, non guardarmi così, non voglio ammasciarti sul serio.-
È solo un errore umano.

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