Il cliente è grosso, molto più grosso di quanto abbia mai potuto invocare nelle mie preghiere più appassionate.
La sede è in via Larga, roba da 9.000 euro al metro quadro.
Via Larga… mi incuriosisce che sia la traduzione di Broadway. Ma qui non ci sono tanti teatri, anche se ogni giorno va in scena la replica dello spettacolo della finanza, degli intrallazzi e di buona parte degli affari milionari di Milano. Succede tutto lassù, ai piani alti, proprio dove sto per andare ora.
(Questa me la segno: magari viene buona per un racconto ).
Ho preso la metro e sono sceso al Duomo, non a Missori: volevo fare quattro passi in più per snebbiare la mente e fermarmi un attimo sul sagrato per una preghierina. Anche se non sono un santo, oggi voglio rendere un piccolo omaggio a don Pietro. In fondo è stato lui a procurarmi questo appuntamento.
Mi ha beccato ieri fuori dalla chiesa. Stavo facendo jogging e mi ha chiamato. Strano che si ricordasse il mio nome: non vado mai in parrocchia, nemmeno la domenica. L’avevo conosciuto al funerale di mio padre e mi limitavo a salutarlo per strada.
Comunque, mi ha fermato e mi ha detto di seguirlo in sacrestia, lo ha fatto con tono perentorio, senza mezzi termini.
Ho cinquanta anni: non avrei niente da temere da un prete, nemmeno se fosse un pedofilo o un pervertito, perciò sono entrato con lui.
Don Pietro non sapeva solo il mio nome ma anche cosa faccio nella vita, per chi ho lavorato e quando. In pochi minuti mi ha fatto il riassunto del mio portfolio.
Non è un uomo che si perde in chiacchiere, quindi ha preso in mano il telefono e mentre componeva il numero mi ha detto – Questi sono interessati a te. Parlaci e prendi un appuntamento –
Un saluto, due convenevoli, poi mi ha passato Myriam. Questo è il nome con cui si è presentata “l’assistente generale”.
La donna, con un marcato accento israeliano, mi ha dato appuntamento per oggi.
-Pietro le darà le coordinate. Grazie, arrivederci –
Lo ha chiamato Pietro senza “don”.
Per un attimo mi chiedo che rapporti abbiano questi due.
Aspetto il commento del prete che mi sta di fronte. Sembra che la lunga barba parli per lui. Mi dice solo di non fare altre domande e di non preoccuparmi. Poi scrive alcune note su un foglietto e me lo porge salutandomi.
Voglio fidarmi. In fondo non ho nulla da perdere.
Sul foglietto c’è scritto l’indirizzo e il nome della persona che dovrò incontrare: Angelica Messi.
Arrivo all’indirizzo indicato. So che devo andare all’ultimo piano. Il portinaio sembra il gemello di don Pietro. Mi faccio annunciare.
Arrota la r del mio nome e aspira alcune consonanti: è lo stesso accento della donna con cui ho parlato al telefono. Mi dice di prendere l’ascensore e schiacciare il bottone col triangolo.
Vede la mia faccia perplessa, sorride e aggiunge – È all’ultimo piano. Il triangolo è il logo della società-
Dopo il settimo piano c’è quello col “triangolo”. Ci arrivo in un attimo e in un silenzio che sembra irreale. Strano per un palazzo degli anni 30. probabilmente hanno rifatto gli ascensori da poco.
Sulla porta non c’è un nome, solo quel triangolo equilatero con la base parallela al piano orizzontale. Di fianco non c’è un campanello. Mi guardo intorno: non capisco come entrare. Sfioro il triangolo con la mano: si illumina, emette un ronzio bassissimo, la porta si spalanca.
Il pavimento in betulla sbianciata accoglie il mio primo passo. Una voce mi dice di entrare e proseguire fino alla porta in fondo, dritto davanti a me. Non capisco da dove venga ma l’accento è sempre quello. Non mi chiama dottore, signore o altro, non scandisce il mio cognome, dice solo – Benvenuto Andreah, vieni puhre ahvantih- .
Percorro il corridoio. Ai due lati ci sono finestroni in vetro dal pavimento al soffitto. Sento il brusio di gente che lavora. In fondo, la porta a vetri è aperta.
Myriam mi dice di accomodarmi sul divanetto. Si presenta, mi ricorda che ci siamo sentiti al telefono e aggiunge semplicemente – Entrerai fra un attimo- .
Ha una scrivania azzurrina, il mio divanetto è dello stesso colore. Guardo fuori dalle finestre. È raro per me trovarmi a queste altezze. A sinistra c’è la torre Velasca, dritto davanti a me vedo le guglie del duomo.
È strano che mi abbia dato del tu, è strano che sulla sua scrivania non vi siano computer, telefoni o altro.
Non voglio pensarci. Guardo fuori. Dal lato del duomo vedo avvicinarsi un aereo. Non dovrebbero volare così bassi. Lo vedo sempre più vicino, sta per precipitarci addosso. Mi alzo di scatto, poi resto di pietra.
Myriam ride, si scusa – Non è reale – Dice – Le finestre sono schermate per il rumore e il reparto picture motion si diverte a far passare queste immagini per impressionare i visitatori. Sta’ tranquillo-
I battiti sono su un altro pianeta ma il tono di Miryam riesce a calmarmi.
Pochi attimi dopo vedo un leggero bagliore che dalla sua scrivania le illumina il volto. Ha le fattezze delle madonne rinascimentali, materne, rassicuranti. Non le avrei mai immaginate con quell’accento mediorientale e dietro una scrivania.
Sorride, si rivolge a me e mi invita a entrare nella grande porta a vetri
-Il capo ti aspettha-
Non il “presidente”, il “direttore”, la “signora Messi”: semplicemente “il capo”.
È strana lei, è strano il posto, nemmeno io sono tanto normale, nessuno che faccia il mio lavoro lo è. Entro.
Angelica Messi è completamente diversa da quello che mi aspettavo.
Non ha l’aspetto aggressivo della manager, non sembra una donna tutta lavoro e lavoro che se ne frega dell’estetica e nemmeno il classico mignottone arrivato in alto grazie a virtù poco visibili fuori dalla camera da letto.
Indossa una lunga camicia coreana color cotone naturale, nessun anello, collana o braccialetti.
Ha i capelli scarmigliati lunghi poco oltre le spalle, di una tinta che non avevo mai visto: sembrano cambiare ogni secondo dal celeste chiarissimo al biondo platino.
Mi viene incontro tendendomi la mano, gliela stringo.
– Benvenuto, accomodati. Ci diamo del tu?-
La temperatura della mano mi mette a mio agio. Mi siedo su una sedia austera, chiara come i pochi arredi della stanza.
Nemmeno sulla sua scrivania ci sono computer, fogli, telefoni o qualunque altro oggetto.
L’unica cosa diversa dalla sala dell’assistente è la sua poltrona: sobria ma sormontata da un grosso triangolo luminoso che le sovrasta la testa come una corona.
Mi squadra per un attimo e poi parla. È la prima persona senza accento che sento da quando sono entrato in questo posto.
– So già chi sei, cosa fai e cosa puoi fare per noi. Non importa come lo so. Ti teniamo d’occhio da molto tempo. Piuttosto, vorrai sapere cosa facciamo qui e perché ti ho convocato…-
Sto per aprire bocca ma mi ferma con un gesto.
– Facciamo molte cose, fra queste abbiamo un dipartimento che si occupa di storie. Parlo di storie di persone. Per ognuna ti daremo un nome, un cognome e degli spunti. Tu scriverai la storia. Benvenuto fra noi, cominci oggi. Domande?
– Benvenuto? Sì, ho bisogno di lavorare e questo storytelling potrebbe anche piacermi ma chi ti dice che accetterò?-
Mi guarda come la più tenera delle madri, la più seducente delle donne, la più convincente degli account.
– Oh, non rifiuterai. Non puoi rifiutare. Tu sai scrivere ma non sei eccezionale, te lo dico francamente, però a noi serve la tua anima, ci serve che scriva alcune di quelle storie per noi. Lo farei io stessa e ti assicuro, senza presunzione, che sono molto creativa, però non posso stare dietro a tutto.
Oh sì, accetterai perché per uno come te questo è il paradiso-
Mi sento frastornato. Non ho il coraggio di chiedere altro, non parlo di soldi, di orari, di impegni. Aspetto a bocca aperta che mi dica altro.
– Myriam ti accompagnerà nella tua stanza e ti darà tutte le istruzioni-
Sfiora un punto della scrivania e ne estrae una tesserina metallica luminosa, me la porge come se fosse la sua cosa più preziosa.
– Questo è il mio…chiamiamolo biglietto da visita…È dotato di una tecnologia che usiamo solo qui. Se sarai in difficoltà ti basterà sfiorare il triangolo e io vedrò cosa posso fare.
Ah, posso fare molto. Ora ti devo salutare. A presto-
Sfiora un altro punto della scrivania e l’assistente sembra materializzarsi dal nulla. Saluto la signora Messi e seguo Myriam.
Il biglietto da visita è una piastrina metallica luminescente che sembra tagliata al laser. Al centro c’è il triangolo e sotto, il nome del capo: Messi A.
Il cliente è grosso, così grosso che per lavorare qui dentro non avrò più una vita mia. Letteralmente.