London Tales #1

Benvenuti in London Tales, la mia nuova rubrica che ho promesso mesi fa a Daniela e che finalmente trovo il tempo di scrivere.

 

Oggi inizia la primavera e ieri la mia esperienza londinese ha varcato la ragguardevole soglia dei 2 mesi.
In sostanza sono a 1/3 del percorso medio di una delle innumerevoli persone che vengono qui per fare “un’esperienza di vita” o “per imparare la lingua” (questi ultimi sono i peggiori; mentono sapendo che, nella migliore delle ipotesi, torneranno in Italia con notevoli miglioramenti del loro spagnolo sboccato).

Brevissimo riepilogo: dopo l’estate io e Andrea, il mio Art Director, abbiamo iniziato a guardarci intorno, desiderosi di un’esperienza diversa nel mondo che amiamo. Dapprima in maniera pigra e sognante, ma poi, gira che ti rigira, abbiamo iniziato a fare sul serio e una delle domande che abbiamo inviato è stata presa in considerazione da quelli che oggi sono i nostri attuali datori di lavoro. Un colloquio su Skype con il nostro direttore creativo, giusto il tempo di piacerci e in men che non si dica eravamo a fare la fila per il National Insurance Number (per i meno avvezzi: la previdenza sociale di Sua Maestà, l’unica rottura di balle della burocrazia inglese).

Come potrete facilmente immaginare, per un copy è quanto meno ardito, se non completamente idiota, lanciarsi a capofitto in un’avventura estera se il proprio stipendio è stato pagato fino all’altro ieri dalla lingua italiana, a maggior ragione se si considera che la nuova lingua da padroneggiare non la si è studiata neanche un giorno in vita propria (mi rendo conto dell’inutilità di quest’ultima informazione, ma la scrivo per fare un dispetto ad Andrea, che si lamenta, giustamente, del fatto che con questa storia sono un disco rotto, ormai).

Eppure posso dire con ragionevole certezza che ha ragione lui:

https://www.youtube.com/watch?v=10KObAQFmlY

Sì, fare il copywriter in un’altra lingua sembra possibile. In fin dei conti la lingua si impara e il talento che uno può avere con le parole è, a dispetto delle apparenze, senza confini.

Fatality

Le insidie sono tantissime, a cominciare dalla tastiera (punteggiatura disseminata a casaccio e la combinazione di tasti per una fatality in Mortal Kombat è più semplice di quella necessaria per accentare le lettere), passando per cultura e senso dell’umorismo. Insomma, sono e saranno mesi di adattamento davvero intensi e difficili, ma non impossibili.

Ovviamente, ancor prima di perfezionare la lingua, mi sto già buttando a capofitto nei giochi di parole. Nello specifico, il mio più grande successo finora è aver coniato il termine “fuckount” per indicare i nostri acerrimi nemici in agenzia.

A tal proposito, entriamo un po’ più da vicino nella vita lavorativa d’oltremanica.

Ecco, cominciamo subito dalla tecnologia. Siamo in un’agenzia digital, per cui qui viene data molta attenzione alle ultime novità in materia. L’altro giorno giocavo felice e beato con l’Oculus Rift (ho avuto più o meno la stessa reazione del protagonista del video) mentre ieri perdevo la testa per il Leap Motion Controller. In generale, comunque, qui si dà molta importanza a ciò che succede nel mondo, sia a livello pubblicitario sia a livello di tecnologia tout court.

Passiamo alle note dolenti.
I nostri cari fuckount non si discostano minimamente dai loro italici corrispettivi (mi riferisco alla media generale, non alla mia ultima esperienza a Milano, che considero oro rispetto a certi picchi di follia visti qui). Parecchi di loro sono campioni olimpici di domande idiote (sì, grazie a loro ho rivisto le mie posizioni rispetto al detto “non esistono domande idiote, solo risposte idiote”) e di debrief tragicamente travisati. Risultato? A furia di lavorare fino a tardi, ormai abbiamo fatto la carta fedeltà alla pizzeria qui sotto, famosa per cucinare una tra le peggiori pizze del Regno Unito, che già di per sé è un primato ragguardevole.

Kate Pizza

E i clienti sono forse anche peggio (sia dei fuckount, sia della pizza).

La frase più ricorrente è senza dubbio “there’s no budget for that”, che suona molto come “there’s no trip for cats”, sia a livello fonetico sia a livello semantico, a ben pensarci.

In cucina, come potrete immaginare, le cose non vanno meglio. Qui al ristorante dell’agenzia hanno una concezione quanto meno fantasiosa di “insalata” (diciamo che puoi considerarla tale dopo che hai trascorso mezza giornata con Salvador Dalì, Boston George e Paul Gascoigne), ma gli inglesi sono cintura nera di junk food. Una cintura molto allargata, mi viene da dire.

Il top comunque è un ragazzo, che per privacy, praticità e scarsa memoria chiamerò Salvatore, che lavora alla caffetteria. È inequivocabilmente napoletano e, in barba a ogni luogo comune, un istante dopo aver conosciuto me e Andrea ci ha subito proposto del tabacco di contrabbando a £2. Una gioia incontenibile e inspiegabile ha pervaso il mio corpo in quel momento. Sono scene che contribuiscono parecchio alla formazione di una persona e che farebbero la gioia di Zola e Flaubert (cito due francesi a caso giusto per fare rabbia agli inglesi).

 

Ma sapete che c’è? It is worth it. E tanto anche.

Al di là di tutte le lotte (col cliente, ma anche interne, come ogni grande agenzia), quello che vedo qui è un mondo abitato da persone ancora innamorate del lavoro che fanno. Forse la differenza sta nel fatto che a Londra, paradossalmente, c’è molta meno concorrenza rispetto all’Italia, dato che manca quella generale “mitizzazione” (ci ho messo cinque minuti per trovare le virgolette, maledetta tastiera Uk) della professione che in Italia ancora abbiamo, e chi lavora in pubblicità lo fa per vera passione e dedizione, non perché “fa figo” (credetemi, qui non fa per niente figo essere un copy).

O forse sto dicendo solo un mucchio di baggianate, chissà. Sarà il tempo a stabilirlo.

Resta il fatto che qui si sta bene, oggi c’è il sole e, come ogni venerdì, tra poche ore partiranno le birre gratis, ma l’altra sera, parlando su Skype con mia sorella, le ho chiesto di inquadrare il bidet e mi sono quasi commosso.

Sono cose che fanno pensare.

 

Ps: ci è appena arrivata un’email che millanta un pranzo a base di pizza per tutti. Ho paura.

 

NB:
per una corretta lettura e fruizione dell’articolo si consiglia l’ascolto di “For Emma, Forever Ago” (quanti più brani, possibilmente) dei Bon Iver.

 

 

Rocky 4, ovvero: per combattere il caldo serve una guerra fredda.

Ragazzi, il momento è solenne e impone lo sviluppo di una coscienza sociale ben articolata. Fa caldo, è ancora estate, se siamo già tornati a lavoro, stiamo comunque pensando ancora al mare. Insomma, la soglia dell’attenzione è alta come Brunetta, non prendiamoci in giro. È in momenti come questo che inizia a covare il germe dell’ignoranza, del rifiuto aprioristico della conoscenza, foraggiato e indotto dalla pigrizia e da condizionatori che con sempre meno dignità e professionalità assolvono ai loro compiti. È per questi motivi che oggi ho deciso di scuotere le nostre coscienze affrontando un tema molto importante: è giunto il momento di analizzare nel dettaglio una pietra miliare degli anni ’80. È giunto il momento di sviscerare tutto ciò che non abbiamo mai osato dire su Rocky 4. Proverò pertanto a condurvi attraverso alcuni passaggi chiave del capolavoro in questione, per scoprirne i significati reconditi e le valenze socio-culturali.

Partiamo dal presupposto che Rocky 4 è, inutile negarlo, la sintesi perfetta del punto di vista americano sulla guerra fredda. Ecco. Non ci sarebbe niente di male in sé e per sé. La propaganda si è sempre fatta, soprattutto in momenti in cui la tensione si taglia col coltello e si usano paroloni, tipo “scudo spaziale”, che fino a quel momento non avremmo pensato di sentire mai, nemmeno in un episodio di He-Man. Il problema sussiste nel momento in cui, per fini propagandistici, si dipinge un’immagine forse un po’ esagerata del fenomeno. Secondo l’americano medio, i russi non vengono mai negli Stati Uniti ma, quando ci vengono, ammazzano il tuo migliore amico, noncuranti del fatto che poco prima James Brown si sia esibito anche per loro. E che cosa sono sti russi? Manco un briciolo di educazione! Oh, alla fine è James Brown, mica Osvaldo e i Belli Dentro! Niente. A Ivan Drago jè parte la ciavatta (mi scuso per il tecnicismo pugilistico) e inizia a menare il povero Apollo finché non lo uccide con un pugno tostissimo. Scoppia la tragedia, che per fortuna fa passare in secondo piano il fatto che nessuno avesse pagato la SIAE per il concerto di James Brown.

È qui che scatta il revanscismo americano, l’orgoglio a stelle e strisce che impone l’immediato ripristino dello status quo. Quindi che si fa? Mandiamo Rocky a combattere contro Drago. Ma sì, mandiamo un tappo, che è dal primo film che annuncia il ritiro, che ha preso una vagonata di pugni da gente del calibro di Mister T e Hulk Hogan, a sfidare una palazzina di muscoli che le uniche parole che sa di inglese sono “ti spiezzo in due” (quindi non esattamente un gioviale compare, a occhio e croce).

E qui subentra la seconda parte della riflessione, che abbandona momentaneamente la contesa politica, per affrontare tematiche più vicine al diritto di famiglia, all’antropologia culturale e alla sociologia dei costumi.

Ora, io capisco perfettamente il desiderio di vendetta, ma cosa vuoi dimostrare andando a combattere in Russia contro un armadio a muro strafatto di steroidi? Ma soprattutto, perché ci vai a combattere la notte di natale? Hai una moglie e un figlio di 7 anni e che fai? Parti per la Russia?

Che poi, anche qui, ci sarebbe da aprire una piccola parentesi: quella Adriana lì te la raccomando! Lei e Rocky litigano poco prima che lui parta perché, in sostanza, lei è costantemente terrorizzata dall’idea di una vita anche solo vagamente interessante. Se non c’è monotonia e anonimato, lei non sta bene. È quel tipo di persona che considera l’uncinetto uno sport estremo.

Ma comunque, non è questo il punto. Lei decide di partire e raggiungere il marito lontano, che tra l’altro è in Russia col cognato (quel bel ragazzo di Paulie, fratello di Adriana). Morale della favola: lasciano un bambino di 7 anni da solo a casa la notte di natale! E soprattutto, se ben ricordate, il bambino guarda l’incontro in tv quella sera, giusto? Ok. Sorvoliamo su quanto disturbato sia quel frugoletto, convinto che urlare al televisore gli permetta di comunicare con il padre. Il problema di base è: un bambino di 7 anni guarda la tv la notte di natale con i suoi amichetti. Ma questi che famiglie hanno? Mandrie di genitori che abbandonano i figli per chissà quali impegni (ok, uno di loro sta difendendo l’onore degli Stati Uniti a suon di cazzotti, ma gli altri, soprattutto se ci basiamo su cultura e intelligenza del buon Balboa e conseguenti affinità elettive, non mi sembra possano essere ministri, presidenti della Corte dei Conti o scienziati termonucleari).

Ed ecco qui che, magicamente, si materializza l’anello di congiunzione tra le due riflessioni.

A pensarci bene, a guardare le cose nel profondo, il quadro appare chiaro: la disgregazione del nucleo familiare e la perdita di valori sono figlie di una pessima coppia di genitori, composta dall’ossessione per la guerra fredda, da un lato, e dal sempreverde edonismo reaganiano, vero trademark degli anni ’80 dello zio Sam, dall’altro.

Insomma, è evidente: Rocky 4 è un film che nasconde al proprio interno un’infinità di registri semantici e chiavi di lettura. Non lasciamoci distrarre dalla sua struggente bellezza, da una fotografia che avrebbe emozionato anche il più severo Duccio Patanè, da una trama capace di riscrivere le regole stilistiche dell’intero genere cinematografico. Alziamo l’asticella, guardiamo oltre l’estetica e permeiamoci di contenuto. Io con questo post ho solo leggermente schiuso una porticina che dà su un universo. Chiedo anche a voi di contribuire con le vostre testimonianze e le vostre analisi su questo innegabile capolavoro di stile e maestria.

Qualcuno ha già iniziato.

 

NB: per una corretta fruizione del testo, suggerisco l’assunzione di molteplici M&M’s (sacchetto giallo). Coadiuvate questa pratica con l’ascolto di Born in the U.S.A. del Boss oppure, per i meno convenzionali, del brano Il Presidente di Dargen D’Amico.

 

 

 

 

Virgole: è il momento di fare il punto.

Virgole è il momento di fare il puntoMiei cari, torno adesso da un viaggio sensoriale incredibile e imponderabile. Ho abbandonato per alcune ore il mio corpo e mi sono addentrato in una selva di sensazioni mai provate prima. Ho smesso di essere una figura umana in tutto simile a un copywriter e mi sono trasformato in uno dei miei strumenti più preziosi, croce e delizia della mia prosa, nemesi e sodale del mio fluire verbale. Signori miei, io sono stato una virgola.

E sapete cosa vi dico? Essere una virgola è fico. No, sul serio. La gente (questo è chiaro ai più, ormai) sottovaluta il potere di questo piccolo segno curviforme, tanto sinuoso e flessuoso da far invidia alla mia curva lombare (che in effetti, non esistendo, prova invidia anche per un manico da scopa o un cuscino di ghisa, ma questa è un’altra storia). Nemmeno io credevo al potere della virgola, o almeno non ci credevo così tanto. Poi è successo un fatto curioso: mi sono coscenziosamente addormentato al lavoro e mi sono risvegliato virgola. E adesso vi racconto cosa ho fatto e cosa ho scoperto.

Ho esordito col botto. Sono stato la seconda virgola de “Il buono, il brutto, il cattivo” su Wikipedia. Non si stava male, la posizione era prestigiosa (in più, quando nessuno era connesso alla nostra pagina, Morricone raccontava barzellette in romanesco da sbellicarsi), ma sentivo di poter fare molto di più.

È lì che ho iniziato a pensare di riposizionarmi come virgola con scopi umanitari. Tanto per dirne una, con la mia sola presenza ho salvato la vita al nonno della frase “Let’s eat, grandpa!” Ma mica mi sono fermato lì.

All’ufficio anagrafe di un piccolo comune alle porte di Isernia ho sedato la furiosa lite tra due neo-genitori indecisi tra sei nomi (quattro maschili e due femminili, oltretutto) da dare al loro primogenito. Questa stessa azione ha altresì protetto il nuovo nato da prese per i fondelli bipartisan nei successivi anni della formazione, anche se non ha potuto evitargli una carta d’identità in A3. Ma pazienza, abbiamo salvato il salvabile.

Ho anche contribuito alla guarigione dall’asma di un logorroico cronico, senza clamori e senza star lì a menarla troppo, come il più arrogante dei punti esclamativi.

Sì, noi virgole siamo così. Un po’ low profile, amiamo fare il lavoro sporco, svolgere i compiti ingrati o comunque senza chissà quanta gloria.

Understatement: questo è il nostro mantra.

Qualche esempio? Una delle soddisfazioni più grandi l’ho avuta facendo la virgola di una lista della spesa. Nessuno badava a me, ma in fondo sapevo che, in mia assenza, il supermercato sarebbe stato pieno di gente, armata solo di pazienza e faccia perplessa, intenta a cercare peperoncini assorbenti e caffè adesivo per dentiera.

Noi virgole siamo versatili, ci adattiamo, andiamo lì dove c’è bisogno. Ne ho conosciuta una che, in un momento di difficoltà e crisi dell’azienda in cui lavorava, si è tirata su fin dove ha potuto e ha fatto l’apostrofo a progetto. Ora, non per volerlo sempre prendere di mira, ma vorrei vedere un punto esclamativo piegarsi alle esigenze di mercato e fare sei mesi di stage come punto interrogativo, senza neppure i buoni pasto.

Noi virgole abbiamo il cuore buono e la mente sveglia. Sappiamo quando dobbiamo intervenire, ma sappiamo anche quando farci gli affari nostri. Prendete soggetto e verbo, per esempio. Quando sono vicini vogliono stare tra loro, senza rotture, senza nessuno che si metta in mezzo. E noi li lasciamo fare. Pore stelle, hanno bisogno della loro intimità per dare un senso (compiuto) alla loro storia. Chi siamo noi per disturbarli? E non pensiate che si tratti di pigrizia. Non ci costerebbe proprio, nulla metterci in, giro sparse per, una frase giusto per far, vedere, che abbiamo voglia di, lavorare. Ma preferiamo non farlo, perché consapevoli del nostro ruolo da mediani della sintassi, guardasigilli del periodare, numi tutelari del buon italiano.

Essere una virgola comporta grandi responsabilità, credetemi. Io lo sono stato e so cosa significhi. Una virgola capisce, fraternizza, risolleva il morale. È una carezza fatta al foglio, una dolce pausa tra una frase e l’altra, come il cioccolatino mangiato subito dopo aver bevuto il caffè e immediatamente prima di entrare in riunione.

E se cercate una conclusione a questo racconto, sappiate che cercherete a lungo e invano. Noi virgole non siamo fatte per le uscite di scena spettacolari. Siamo gregarie, tiriamo la volata a ben più illustri protagonisti, abituati alle luci della ribalta sintattica. Siamo le maschere che ti guidano a prendere posto nel teatro della lingua, dove di scena ci sono i paroloni e le figure retoriche se va bene, anche se – ahimè – sempre più spesso anche loro sono scalzati da gretti e scurrili saltimbanchi, magari dialettali, e da pennelloni bellocci, ma privi di sostanza e verve: i punti esclamativi, ça va sans dire!

 

NB: per una corretta fruizione del testo, suggerisco l’ascolto di Bon Iver – Flume (Kulkid remix). Ulteriore giovamento possono darlo la foto della rovesciata di Djorkaeff durante un Inter-Roma della stagione 1997/1998 e una qualsiasi immagine che ritragga Gérard Depardieu (a patto che sia indicibilmente grasso).

 

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