Il copywriter e l’inglese
-PART TWO-
Personaggi:
Daniela, nel ruolo del copy
Silvio, nel ruolo dell’account
Google, nel ruolo del direttore creativo
È una tarda mattina d’inizio estate da 35 gradi all’ombra. Gli uccellini che ancora non sono allo spiedo cinguettano e il McDonald’s a 500 metri sbiadisce in lontananza nella calura dello stradone. Mancano solo le balle di fieno e i coyote per completare il quadro desertico.
In questo clima da mezzogiorno di fuoco, in agenzia si sta svolgendo la solita battaglia tra copy e account. Lavoriamo stavolta su una campagna nautica. Cliente: Sciva, divinità nel mercato italiano degli yacht. Né lui, account, né io, copy, potremo mai permettercene uno, ma millantiamo sfacciatamente di sapere tutto (soprattutto l’account ovviamente, perché LUI sa tutto) su chi invece li ha.
La campagna deve avere il titolo in inglese, anche se il marchio è italiano e gli acquirenti pure. Silvio, l’account, mi ha dunque chiesto delle head in inglese “brieffandomi” così:
“La head dovrebbe essere evocativa con tendenza al romantico, ti aiuto con qualche esempio: sole, mare, barche… bisognerebbe parlare anche del design, della tecnologia e della velocità, ma soprattutto del design, però con un testo emozionale che faccia riferimento anche alla potenza. Ah, e ricordati il made in Italy! Tutto chiaro?”
Non batto ciglio, conosco bene la razza a cui appartiene il mio interlocutore, e mi ritiro tranquilla a pensare. Il giorno successivo invio un’email a Silvio con cinque proposte. L’account mi risponde in pochi minuti comunicandomi i tre titoli scelti: i primi due li ha fatti lui, perché egli ha una conoscenza diretta del cliente e può farlo, il terzo è uno dei miei. Quello che mi piaceva meno. Aggiunge un post scriptum in cui spiega che il mio titolo di punta in inglese non ha senso.
A quel punto decido di combattere e vado da Silvio a chiedere spiegazioni. Risposta dell’account: “L’ho cercato su Google e non risulta, quindi non ha senso”. Di fronte all’evidente futilità di discutere con costui, m’infurio, ma come solo un copy sa fare: con assoluta calma e compostezza (mi tradiscono solo gli sbuffi di fumo che escono dalle narici) vado al mio computer, apro Google e scrivo, virgolettato, “Silvio Manfredotti è un bravo account”. La ricerca non ha prodotto alcun risultato. Questa frase in italiano non ha senso. Dopodiché aspetto un annetto e pubblico la vicenda su un blog visibile a tutto il mondo.
P.S.Diversa sarebbe stata la reazione di un art director, per il quale vale il motto “meglio un vaffanculo oggi, che un articolo su un blog domani”.
Daniela Montieri

Grandissima!
Mi hai fatto ricordare questa! 🙂
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10150562627643944&set=p.10150562627643944&type=1&theater
È inutile che continui a farti i complimenti. Quindi lo scrivo adesso e basta: Sei veramente brava!
Ahahahahaaha
Attendo anche io sto meditando una “vendetta” del genere con l’ex boss.
Che la guerra contro gli account abbia inizio e prosperi nei secoli e nei secoli.
Sempre più belli i tuoi post, brava.
Geniale! AdoVooo!
..ehi! ..essere paragonato a un banale grillino non mi va mica giù. 😀
La vicenda è di molto precedente all’avvento dei grillini. Doveva essere un antesignano 🙂